
Tutti conoscono la storia di come vide la luce il romanzo di Mary Shelley in cui nasce la figura di Frankenstein. Cinque giovani riuniti in una villa, una notte di tempesta e una sfida letteraria. Vi racconto la notte in cui nacque Frankenstein.
16 giugno 1816, Villa Diodati, Ginevra
È notte sul Lago Lemano.
In giro non c’è nessuno, in quell’estate molto più fredda del normale e sotto una tempesta che non s’era mai vista prima. Gli unici suoni a fendere il silenzio sono quelli dei tuoni e delle scariche elettriche dei fulmini, forse quello di una cane che abbaia in lontananza. Il buio è totale, squarciato solo dai lampi che si ramificano nel buio di campagna.
Una finestra, però, a Villa Diodati, brilla del fuoco tremolante delle candele. Dietro i vetri percorsi da gocce d’acqua che paiono lacrime d’orrore, sta per nascere una creatura che vivrà sulla carta e negli incubi per sempre. Sta per nascere il Mostro di Frankenstein.
Alla luce delle candele ci sono cinque ragazzi, tutti giovani e di bell’aspetto.
Il più grande ha ventotto anni e pare il leader carismatico del gruppo. Davanti alla finestra, illuminato a tratti dalla sinistra luce dei fulmini, legge con la furia di un invasato le pagine del “Fantasmagoriana”, racconti gotici editi quattro anni prima.
Il giovane si chiama George Gordon Byron, scrive poesie, aderisce a qualsiasi causa persa e si butta con entusiasmo e incoscienza in qualsiasi cosa attiri la sua labile attenzione. La sua passione, però, è quella di stare al centro della scena.
George è ricco e in cerca di modi per ammazzare la sua nemica peggiore, la noia. L’idea della vacanza in quella villa è sua, e le altre persone gli orbitano attorno come a un sole malato.
Claire Clairmont, per esempio.
Claire è una ragazza giovane, impulsiva e ingenua. Vuole vivere al massimo, si circonda di poeti e artisti, pur senza avere un talento particolare in nessuna disciplina. Byron l’ha attirata come fa la luce con una falena e lei, anche se non lo sa, si è già bruciata. Il capriccio di George, infatti, dura il tempo della conquista, per poi sparire quando la sfida con se stesso è vinta. Claire è lì perché fa quello che a volte fanno le ragazze ingenue con i narcisisti: è convinta che con lei George sarà diverso.
Claire ha convinto la sorellastra ad accompagnarla. In fondo, anche Mary è un’artista, una che la penna la fa cantare. Wollstonecraft Godwin, questo è il suo cognome, ha diciott’anni anche lei e ha già scritto un goffo poema intitolato “Wolfstein”. Mary si è portata il suo amore, anche se ne è ancora solo l’amante segreta, Percy Bysshe Shelley, quel poeta visionario e incostante che le darà il suo nome immortale, quello di Mary Shelley. Con loro c’è un altro ragazzo, che a vent’anni è già medico, John William Polidori. Se ne sta in disparte, John, ha dolore a una caviglia che forse si è slogato, ma il suo pare più un male dell’anima, una frustrazione sulla via di degenerare in un’ossessione malata
Per George Byron.

Il tempo fa schifo, non quella sera in particolare, ma sempre in quel periodo.
Lontano, il vulcano Tambora è esploso da mesi, un fatto senza nessuna poesia, che non attira l’attenzione dei cinque giovani, ma che abbassa le temperature globali al punto che il 1816 sarà ricordato come “l’anno senza estate”. La noia, nemica giurata di Byron, mostra già i suoi evanescenti artigli e non c’è droga o alcol che la possa scacciare. Una trovata estemporanea, allora, di quelle per cui George va famoso.
“Chiudiamoci ognuno in camera! – urla a un tratto per sovrastare il tuono, con gli occhi spiritati – E ognuno di noi scriverà un racconto del terrore! Poi, ci troveremo qui e li leggeremo.”
Gli altri quattro si guardano in faccia, atterriti e affascinati da quell’uomo. Shelley, per indole, accetta di misurarsi con qualsiasi sfida. Sempre. Mary è entusiasta di dimostrare come una donna possa mettere in riga tutti, quando si tratta di scrivere. Sua madre, del resto, era una femminista già nel Settecento, anche se lei non l’ha mai conosciuta. Polidori, invece, sogna di superare George, il maestro che venera e detesta, da cui è attratto in modo morboso e che lo prende in giro, umiliandolo con ferocia, ma che poi lo vuole sempre al suo fianco.
Solo Claire si defila.
Lei non ha talento per quella roba e poi, se scrivere un capolavoro in una notte è qualcosa d’incredibile, lei è lì solo per un’impresa molto più disperata. Quella di riconquistare Byron. Quella di far ragionare un narcisista manipolatore.
La notte, con la tempesta fuori che batte le ore meglio del pendolo, è agitata per tutti, tranne forse che per Byron, felice per aver dettato le regole come suo solito.
Percy è fuori di sé. Durante la serata, forse in preda a qualche sostanza, ha avuto una sorta di apparizione, una donna nuda con due occhi al posto dei capezzoli. Forse ancora sotto shock, abbozza una storia in cui una donna è perseguitata da uno spettro fatto con le ceneri di un defunto. Shelley, però, è un poeta e il racconto rimane allo stadio di creta da modellare.
Polidori, la cui ambizione è molto superiore al talento, concepisce una storia in cui una donna che ha la pessima abitudine di spiare dai buchi delle serrature, viene punita quando il suo bel volto si trasforma in un teschio. John soffre per i dolori alla caviglia e si sente sotto pressione per il suo rapporto con Byron che, a parte la derisione, pare non sfociare mai in nulla.
Eppure, quella notte porterà con sé una piccola rivincita.
George Byron, fedele alla sua indole che lo vuole molto più avvezzo a iniziare con entusiasmo qualsiasi impresa che non portarla a termine, ha un colpo di genio. La sua storia è ambientata nei Balcani e ha per protagonista un vampiro. Probabilmente sta raccontando se stesso, la sua furia di vampiro metaforico, quello che succhia le energie alla sua vittima prima di passare alla successiva.
L’idea è fenomenale, e farà la fortuna di decine di autori, a partire da Bram Stoker. Byron, però, fa quello che fa sempre: si innamora dell’idea, se la gira tra le mani, inizia con slancio e poi l’abbandona prima che frutti. Addirittura, la ritiene un tale scarto che la lascia nelle mani di Polidori, medico, segretario, assistente, forse amante.
La storia, però, si scrive nella stanza vicina, quella di Mary Wollstonecraft Godwin. Mary si mette alla scrivania, si danna, si tortura il cervello in cerca di un’ispirazione. Nella testa le girano idee sulla scienza moderna, chiacchiere sul galvanismo e sull’anima che nei giorni precedenti hanno tenuto banco.
La fascinazione per l’uomo che si erge a Dio e crea la vita dalla materia inerte.
Non riesce però a scrivere nulla di buono e decide di fare quello che una donna fa sempre, usare il buon senso. Va a dormire.
E sogna.
Sogna il simulacro di un uomo sdraiato su un letto, forse contenuto con delle corde.
Sogna una macchina potente e – soprattutto – sogna quell’uomo che si alza all’improvviso.
I tuoni e i lampi fanno il resto: nasce il Mostro di Frankenstein.
Forse il nome sfrutta un cognome piuttosto diffuso in Germania, o forse è una crasi tra Wolfstein, il poemetto giovanile, e Franklin, il Benjamin americano che studia l’elettricità.
Il romanzo vedrà la luce solo due anni dopo, ma il seme è gettato, Frankenstein o Il Moderno Prometeo è stato scagliato su questa Terra.
Cosa succede dopo quella notte di tregenda sul Lago Lemano? Quasi come se Byron avesse scagliato una maledizione, solo chi non ha partecipato al rito ha una vita lunga, Claire Clairmont. La donna ha una figlia da quella relazione malata, che chiama Allegra, e una vita difficile da istitutrice. Vive però fino a ottant’anni e – quando muore nel 1879 – è da tempo l’unica testimone della notte in cui nacque Frankenstein.
John William Polidori completa il racconto sul vampiro, quello per cui è ricordato ancora oggi. Il suo proto-Dracula si chiama Lord Ruthven, un nome usato a volte da Byron, di cui è una caricatura in versione horror. Il racconto non è un capolavoro, ma ha il merito di tracciare i contorni della figura del vampiro per i futuri secoli.
Lui, però, non lo saprà mai. Divorato dall’ambizione, torturato dalla frustrazione, schiacciato dal talento degli amici e forse stritolato dal rapporto tossico col suo mentore, mette fine alla sua parabola terrena ingerendo dell’acido prussico a soli venticinque anni.
Shelley vive poco di più: annega al largo della Toscana a ventinove anni nel naufragio della “Liberal”, la sua imbarcazione. Gli anni che lo separano da quella notte a Ginevra sono densi di lutti, così come per Mary.
La donna vive fino a cinquantatré anni e conosce il successo proprio grazie a Frankenstein, ma forse avrebbe preferito morire giovane come i suoi compagni. Perde Percy, di cui si dice conservi il cuore carbonizzato nel comodino, ma anche tre dei quattro figli.
E Lord Byron?
Vive ancora otto anni e muore ammalandosi in Grecia, al fronte. La sua ultima fissazione è la causa dell’indipendenza greca.
Forse George sogna una romantica ed eroica morte in prima linea, ma la sorte – forse la maledizione – che gli tocca è meno epica.
Chi sopravvive a tutti è proprio il Mostro di Frankenstein.
Che mostro non è, ma dolente figura di un emarginato, uno che vorrebbe solo sparire nei gelidi mari artici. Ma, che per farlo, dovrà attraversare le tragedie e gli inferni di un qualsiasi essere umano.
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