
New York, anni Settanta dell’Ottocento
Siamo a New York, negli anni Settanta dell’Ottocento, negli uffici doganali del porto. Un uomo che ha superato la sessantina è affacciato alla finestra e scruta il lontano orizzonte dell’Oceano. Porta una lunga barba e il volto è segnato da rughe sottili che lo fanno somigliare a una carta geografica, frutto di una giovinezza passata all’aria aperta.
Il suo sguardo è rassegnato, come quello di chi sa di avere un grande futuro dietro le spalle. A un tratto gli sembra di vedere qualcosa solcare le acque buie del mare, qualcosa di bianco. Di enorme.
“Herman!” lo chiama il giovane collega d’ufficio, un tipo grigio, dall’aria impalpabile, con i pince-nez sul naso e dei vistosi manicotti verdi.
“Guarda che le pratiche non si sbrigano da sole, vuoi passare tutto il pomeriggio a guardare il mare?”
L’uomo si scuote e torna al suo posto, nelle retine ha ancora impresso l’Oceano e quella forma bianca, forse un capodoglio, forse un riflesso.
Quell’uomo ha visto Moby Dick.
Sì, lo ha visto nella sua mente trent’anni prima, e ne paga ancora le conseguenze.
La carriera prima del capolavoro
Alla fine degli anni Quaranta dell’Ottocento, Herman Melville è uno scrittore di successo che narra avventure marinaresche ben scritte ma senza troppo nerbo, perfino un po’ banali.
E infatti vende benissimo.
Herman racconta le sue avventure come marinaio, un periodo in cui viaggia per i mari e spesso tenta di sfuggirgli, disertando, scappando, mischiandosi agli indigeni dei tropici, ma tornando sempre a inseguire le sue ossessioni.
Il suo richiamo per l’Oceano ha qualcosa di malato, ma Herman saprà come rendere la sua paranoia su carta solo dopo aver incontrato Nathaniel Hawthorne, colui che rende la sua scrittura buia e profonda. E che forse gli rovina la vita.
Melville, per molti scrive grazie al mare: è vero il contrario, lui scrive nonostante il mare.
Mocha Dick, la Essex e la genesi della Balena Bianca
Nei suoi anni sulle baleniere ne ha viste molte e sentite troppe.
Tra queste, la storia di Mocha Dick, un capodoglio albino che prima di cedere alla furia dei balenieri si trascina dietro la nave con decine di arpioni nelle carni.
O quella della baleniera Essex, affondata da un altro capodoglio.
Melville scrive una storia che mescola i due eventi, ma non è soddisfatto.
Poi conosce Hawthorne, e rimette le mani su Moby Dick: ne esce dopo un anno e mezzo di lavoro con in mano il capolavoro della letteratura americana e – allo stesso tempo – col romanzo che mette fine alla sua carriera di scrittore di bestseller.
Tutto in Moby Dick: Achab, il destino, il nulla
In Moby Dick, Melville mette tutto: Shakespeare e la Bibbia, le sue avventure in mare e la lotta contro un dio oscuro e un destino irreversibile, mitologia e ossessioni, ironia e disperazione, un trattato enciclopedico sulla navigazione e soprattutto un personaggio indimenticabile: il capitano Achab.
Achab non è semplicemente “pazzo”, non è solo il villain del romanzo.
È molto più complesso: è un ossesso lucido, un visionario razionale che vuole trasformare l’universo in un duello personale.
Non dà la caccia a una balena, ma a una forza cosmica che lo ha sfregiato.
Vuole vendetta, ma non contro un animale. Vuole colpire Dio, il Caso, il Nulla. Qualcosa che lui chiama “la maschera dietro la maschera”.
Ha perso una gamba, ma non prova dolore, solo furia.
Achab ha un forte desiderio di morte, trascina il suo equipaggio in un’impresa senza ritorno, sapendo che sarà l’ultima.
È amato e temuto. Ipnotizza tutti, tranne Starbuck, l’unico che si oppone alla sua affascinante follia.
Achab è il potere del leader carismatico paranoico, disposto a tutto per far combaciare il mondo alla propria visione.
La sua gamba di legno che batte il pavimento misurando i metri della sua cabina è un vero metronomo della follia.
Achab è Melville. E la balena è tutto il resto.
Il capitano Achab è Melville stesso.
La balena è Dio, il destino, l’ignoto.
Il Pequod è l’umanità che affonda nel caos.
Moby Dick non è solo un romanzo, ma un’apocalisse laica, il dramma di un uomo solo di fronte alle forze oscure dell’Universo.
Melville però, come ogni grande autore, non è solo in Achab.
C’è un po’ di lui in ogni personaggio, soprattutto nella voce narrante, quell’Ismaele protagonista di uno degli incipit che fanno la storia della letteratura: “Chiamatemi Ismaele”.
Ismaele: l’escluso che sopravvive
Ismaele è l’escluso, il figlio della serva biblica, il vagabondo.
Ismaele è il figlio di Abramo e della serva Agar.
Un figlio illegittimo, nato prima di Isacco, che viene scacciato nel deserto, insieme alla madre, per ordine di Dio (e su richiesta di Sara), perché Isacco è l’unico che deve ereditare la promessa divina.
Ismaele è un escluso, un reietto, ma anche un sopravvissuto.
E nel romanzo Ismaele è un narratore errante, senza radici né famiglia, che si imbarca per fuggire da sé stesso e dal mondo.
È un testimone degli eventi, ma rimane sempre un po’ di lato, al margine, senza mai essere protagonista, sopravvivendo alla tragedia del Pequod, ma rimanendo solo.
La scelta di un narratore come Ismaele è potente, perché conferisce una voce malinconica e distaccata, come se parlasse dalla fine del mondo, ma facendolo dopo la fine.
Un capolavoro incompreso
Eppure, Moby Dick è un flop tremendo, che fa affondare la carriera di Melville proprio come la balena bianca fa col Pequod.
Troppo lungo e complesso: la critica storce il naso, il pubblico sbadiglia e presto dimentica quell’autore di bestseller che ha voluto osare troppo, che ha affrontato dio e il destino con un romanzo che pare sfidare la Bibbia.
Melville deve rassegnarsi a lavorare in dogana fino alla pensione, scrivendo poco e vendendo meno.
La sua vita diventa un abisso come quello di Achab: un figlio mette fine ai suoi giorni, un altro diventa vagabondo.
Mentre scrive Billy Budd si ammala e muore.
Di Moby Dick sa solo che è comunque l’opera della sua vita e che è andato fuori catalogo, dopo che in quarant’anni ha venduto 3200 copie.
Non saprà mai che, dopo la riscoperta di inizio Novecento, quel libro maledetto, che pareva il relitto del Pequod, sarà considerato il capolavoro della letteratura americana.
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