Nel 1980, Umberto Eco è uno degli intellettuali di punta in Italia. Semiologo, filosofo, medievista, autore di decine di saggi, deve la sua popolarità soprattutto a una vecchia polemica con Mike Bongiorno.
Una storia in cui – come al solito – Mike non ha capito nulla e se l’è presa a morte. Umberto Eco, però, da tempo vagheggia di passare dall’altro lato della scrittura, quella che spesso i grandi studiosi ritengono robetta e che invece lui adora: la narrativa.
Nel ’78, un amico gli propone di scrivere un romanzo giallo, ma Eco declina e, col suo tipico umorismo, ironizza sul fatto che, se proprio dovesse scrivere un giallo, sarebbe un libro di cinquecento pagine con protagonisti dei monaci medievali. Eco è un medievista, e la sua pare una battuta quasi piccata. In realtà, da quando aveva sedici anni, lo scrittore sogna di ambientare il delitto di un monaco tra le suggestive lame di luce di un’abbazia medievale, magari costruita su ispirazione della Sacra di San Michele.
Il nome della rosa nasce così, un po’ da passioni giovanili, un po’ dalla noia dell’intellettuale, ma anche tanto per caso e per l’immensa competenza sul medioevo e non solo dell’autore.
Dentro, Eco ci mette di tutto. Il giallo, intanto, con una serie di omicidi che richiama la nascente figura del serial killer e un metodo che viene fuori da un topos diffuso nella narrativa gotica, ripreso brevemente anche in “Il giovedì”, film poco conosciuto di Dino Risi. Il protagonista, Frate Guglielmo da Baskerville, è un palese omaggio a Sherlock Holmes, a cui somiglia per la tecnica deduttiva che adotta e per la finta modestia. Ma la creatura di Conan Doyle è omaggiata in molti altri modi.
Le atmosfere dark e gotiche richiamano proprio Il mastino dei Baskerville, mentre il nome di Adso, novizio e aiutante di Fra’ Guglielmo, ha assonanze sia con Watson che con la signora Hudson. La voce narrante, poi, è proprio quella dell’aiutante, come nella serie di Doyle. L’ambientazione, la trama gialla e la presenza del novizio aiutante, poi, sono tutti elementi in comune con la serie di Fratello Cadfael di Ellis Peters, di successo in quegli anni. Anche se lì i novizi sono due.
La scansione per ore della vicenda, oltre a ricalcare quella della giornata del monaco, pare un omaggio all’Ulisse di Joyce, mentre la fortuna del romanzo medievale era in quel periodo dovuta anche all’Ordalia, romanzo di Italo Alighiero Chiusano quasi coevo.
Ma non basta: il bello del Nome della rosa sta soprattutto negli infiniti piani di lettura. La trama gialla è infatti solo il primo e più vistoso. Il nome della rosa è anche, ovviamente, un romanzo storico, ma è pura un’inesauribile fonte di citazioni filosofiche, un manuale su eresie e inquisizione, una riflessione sulle lotte di potere dentro la chiesa e sulla divisione tra materiale e spirituale. Qualcuno ci ha visto anche un’allegoria del mondo degli intellettuali degli anni Settanta, ripiegato su stesso e chiuso alla realtà.

Il titolo, infine.
Il nome della rosa cita un verso, di argomento nominalista, del “De contemptu mundi” di Bernardo Cluniacense, con cui Eco chiude il romanzo: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” (“La rosa primigenia [ormai] esiste [soltanto] in quanto nome: noi possediamo nudi nomi”).
All’inizio, non ci crede manco Eco. Per lui, il romanzo è un divertissement, vorrebbe pubblicarlo in sole mille copie in edizione di lusso. Per fortuna si convince a far uscire un romanzo “normale”, visto che vende subito trentamila copie e che vince lo Strega da esordiente. Negli anni, Il nome della rosa diventa bestseller mondiale (50 milioni di copie), un film di culto con Sean Connery, una bella serie Tv, una graphic novel di Milo Manara. Soprattutto, però, Il nome della rosa diventa uno di quei marchi inconfondibili, che sottende un mondo. Altro che “possediamo solo i nomi” …
Come sempre, però, il capolavoro che ha anche successo, scatena odio e invidia sociale e artistica. Medievisti da bar fanno a gara per scovare errori storici o semplici imprecisioni, spesso licenze dovute a necessità narrative. La figura di Eco, poi, odiata in genere da una certa parte politica, alimenta per la proprietà transitiva un certo malanimo verso l’opera. Eco stesso, che amava sempre ironizzare, riteneva il suo romanzo “sopravvalutato”, e non perdeva occasione per ribadire che gli altri da lui scritti erano superiori.
“Non aspettatevi […] che io vi parli troppo de Il nome della rosa perché io odio questo libro e spero che anche voi lo odiate. Di romanzi ne ho scritti sei, gli ultimi cinque sono naturalmente i migliori, ma per la legge di Gresham, quello che rimane più famoso è sempre il primo.”
Certo, sapendo che il suo era di sicuro tra i capolavori più venduti del Novecento, Eco aveva di che consolarsi.
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