Andrea La Rovere

Ci sono storie bellissime ma sconosciute, fino a quando qualcuno non le racconta

Fanny, chi dice donna dice rock

Fanny, chi dice donna dice rock

A volte le storie rimangono sepolte sotto la polvere del tempo; succede così, come con le rovine di antiche civiltà che tanto ci fanno emozionare. La storia da cui oggi soffiamo via la polvere è quella delle Fanny, la prima rock band tutta femminile della storia.

Viviamo un periodo in cui, nonostante tanti progressi, giornalmente ci troviamo di fronte a storie di discriminazione; spesso le donne sono vittime, se non di violenza vera e propria, di prevaricazione. La storia delle Fanny – a cavallo tra anni ’60 e ’70 – può essere allora paradigmatica di come per le donne sia più difficile emergere. E se lo è ancora oggi, all’epoca della nostra storia era quasi impossibile.

I semi per l’epopea delle Fanny vengono gettati nelle lontane Filippine. June e Jean Millington sono due sorelle, figlie di un militare americano stanziato nelle Filippine e di una ragazza locale. Quando la famiglia torna negli Stati Uniti, in California, è il 1961. Paradossalmente, il primo embrione della band nasce proprio per reagire ad atti di bullismo.

Le due ragazze vengono infatti emarginate per i loro lineamenti esotici; forse i compagni di scuola non le ritengono abbastanza stereotipate per rientrare nei canoni che esistono solo nelle loro teste, ma ottengono l’effetto contrario. June e Jean, che hanno grandi doti per la musica, reagiscono cercando appoggio e amicizia attraverso l’arte. Formano un duo, cantando e accompagnandosi con l’ukulele.

In breve, quello che era un modo per scansare certi comportamenti incivili, diventa qualcosa a cui applicarsi e prendere gusto. Alle due giovani si aggiungono Addie Lee, una chitarrista, e Brie Brandt alla batteria: nascono le Svelts. La band inizia a farsi notare suonando rock’n’roll, un genere fino ad allora esclusivo dei maschi.

Le ragazze erano infatti puro contorno, pupe da conquistare a colpi di ciuffi brillantinati, movimenti di bacino e qualche schitarrata. Al massimo, il mondo del pop permetteva qualche gruppo vocale in stile Motown; le uniche donne che avevano imbracciato la chitarra, fino ad allora, erano blueswoman come Memphis Minnie, spesso reduci da vite di strada e con storie al limite dello schiavismo.

Le Svelts iniziano a farsi un nome come band rock femminile, ma l’epoca è quella che è, e così Brie Brandt deve abbandonare il progetto quando si sposa; difficilmente nella puritana America una donna sposata può inseguire sogni musicali. Arriva così al suo posto Alice De Buhr, una riot girl ante litteram che sarà la batterista fissa della band.

Coi cambi di formazione le Svelts presto cambiano anche nome, diventando le Wild Honey. Tuttavia, a un certo punto il maschilismo dell’ambiente, dove pare non esserci spazio per un progetto tutto femminile, ha il sopravvento. Le Wild Honey prima si adattano suonando il repertorio Motown, poi decidono di dire basta e sciogliersi.

L’ultimo concerto è previsto al Troubadour di Los Angeles, nel 1969.
Ma qualcosa, negli ingranaggi del destino, si è intanto mosso. Il marketing, già sviluppatissimo all’epoca, ha un grande pregio, quello di non essere moralista. E in quegli anni di alba dell’emancipazione, le alte sfere decidono che è il momento di conquistare nuovi spazi di mercato, e che una band femminile può servire allo scopo.

Se fino a pochi anni prima l’idea faceva sorridere, ora le etichette discografiche scandagliano il terreno alla ricerca di rocker donne. E così capita che, quella sera al Troubadour, sia presente Richard Perry, talent scout della Reprise. Le Wild Honey vengono messe sotto contratto dalla Reprise a scatola chiusa, senza nemmeno tenere un provino. Poco male, visto che le ragazze sono strumentiste di prim’ordine.

Con l’aggiunta di Nickley Barclay, cantante e tastierista di qualità, per le Wild Honey il sogno si avvera. Ma non con quel nome: vendere l’anima al diavolo impone sempre una contropartita e per le ragazze i compromessi sono due. Il moniker, intanto.
Leggenda vuole che il nome Fanny venga suggerito da George Harrison; la parola negli Stati Uniti non ha particolari significati, mentre in Gran Bretagna è un corrispettivo slang del termine vagina.

Inoltre Brie Brandt, che aveva cercato un tardivo rientro accontentandosi delle percussioni, viene estromessa da Perry in persona. Il manager vuole che le Fanny siano quattro, una sorta di versione femminile dei Beatles.

È il 1970 quando Fanny, il primo album così fantasiosamente intitolato, esce.
Il lavoro propone un rock eclettico, dai sapori soft e con cori quasi da Motown. Le parti vocali sono equamente divise tra le due Millington e  la Barclay; De Buhr canta solo occasionalmente. Jean è una buona chitarrista ma – in generale – il sound non fa gridare al miracolo.

Il pezzo forte delle Fanny sono loro stesse: mai si era vista una band rock tutta al femminile e la cosa, almeno inizialmente, è sufficiente. Dal vivo poi le ragazze hanno un bel tiro e un’immagine che strizza l’occhio al movimento hippie, allora agli ultimi fuochi. Le loro canzoni, inoltre, sono farina del loro sacco, tranne per una riuscita cover di Badge dei Cream.

Il seguente Charity Ball rilancia con atmosfere più rock’n’roll e country e ottiene un buon riscontro. Per le Fanny è il momento migliore, anche Barbra Streisand le chiama come backing band, alla ricerca di una estemporanea trasformazione rock. Il successo non è stratosferico ma comunque buono, tuttavia iniziano i guai tipici delle rock band, maschili o femminili che siano.

Jean in particolare dà segnali di insofferenza; i contrasti con la Barclay sono frequenti, inoltre l’immagine che il management vorrebbe imporle non le sta bene. Abbandona, sostituita inizialmente da Patti Quatro, sorella della poi celebre Suzi. Anche De Buhr se ne va, lasciando spazio al ritorno di Brandt.

Escono altri album, poi – inevitabile – arriva lo scioglimento. Nel frattempo le presenze femminili nel rock sono fiorite, da Suzi Quatro ai Fleetwood Mac, fino a Joan Jett e le eroine punk di qualche anno dopo. Le Fanny hanno comunque aperto la via.

Negli anni successivi, tra qualche scialba reunion e progetti solisti, le ragazze rimangono quasi tutte in ambito musicale. Negli ultimi anni l’interesse attorno alla loro storia è riemerso, grazie a un nuovo disco e a un film che racconta l’intera vicenda.

Tra gli ammiratori illustri, il grande David Bowie, che intratterrà anche una breve e misteriosa relazione con Jean Millington. Il Duca Bianco dichiarerà a Rolling Stone nel 1999: “Erano straordinarie: scrivevano di tutto, suonavano come dei figli di puttana, erano semplicemente colossali e meravigliose, e nessuno le ha mai nominate. Sono importanti quanto chiunque altro lo sia mai stato, mai; semplicemente non era il loro momento.”

La dimensione ideale delle Fanny, paradossalmente, era quella live; a dispetto dei dubbi sollevati sul fatto che delle donne potessero suonare il rock a livello strumentale come i loro colleghi maschi. Dirà June: “Sapevamo che dovevamo dimostrare di poter suonare e trasmettere qualcosa dal vivo. Altrimenti, nessuno ci avrebbe creduto.”

La storia delle Fanny è quindi una storia di emancipazione, degna di essere riscoperta e tramandata in questi tempi – ancora e troppo spesso – difficili per le donne. Sulla strada di una parità di genere che rimane di sovente solo una parola.

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