Andrea La Rovere

Ci sono storie bellissime ma sconosciute, fino a quando qualcuno non le racconta

LA STORIA DI CATERINA SFORZA (II^ PARTE)

LA STORIA DI CATERINA SFORZA (II^ PARTE)

Il giorno prima di Ferragosto del 1484 Caterina Sforza prende con un colpo di mano Castel Sant’Angelo. L’obiettivo è quello di minacciare il Vaticano per far eleggere un papa che faccia gli interessi del marito Riario, ma soprattutto i suoi.

Se avete in mente la Roma di Ferragosto del “Sorpasso” avete sbagliato strada. Ai tempi della Sforza le strade sono tutt’altro che vuote, ma meta di qualsiasi farabutto che voglia saccheggiare la città. Infatti, tra tutte le solite menate del Conclave, della fumata bianca e quant’altro, la successione del papato è un problema, tanto più che all’epoca il pontefice comanda davvero.

Ogni volta si crea un vuoto di potere più o meno lungo in cui chi sa cosa vuole e non si fa troppi scrupoli ha la sua buona occasione. Caterina Sforza lo sa e volta i cannoni verso il Vaticano. Quel fesso del marito, sempre in differita sulla realtà come Tv8 con la Formula 1, finalmente si muove e si mette in una posizione strategica.

Riario però esita troppo e si fa incantare da Giuliano Della Rovere che, oltre a essere un mio parente del ramo sf1gato della famiglia, sarà più in là Papa col nickname di Giulio II. Giuliano sfoggia un bel mazzo di promesse e quello se la beve come acqua fresca: “Se te ne vai ti diamo ottomila ducati, il risarcimento dei danni subiti, la conferma della signoria su Imola e Forlì e la carica di Capitano generale della Chiesa. Non solo, alle prime dieci chiamate – a scelta – una batteria di pentole o una mountain bike col cambio Shimano”.

Riario accetta, Caterina per tutta risposta fa entrare altri 150 soldati e – per far dispetto ai bigottoni – indice feste e balli nel castello. La Tigre, però, sa che alla lunga dovrà fare quello che dice quel che brocco del marito e dopo un paio di settimane di eroica resistenza cede.

Mentre tornano a Forlì, arriva la notizia: il nuovo papa è Giovanni Battista Cybo, Innocenzo VIII, figura a loro avversa. Non sappiamo se Caterina si accontenti del classico “te l’avevo detto” o se allunghi al faccione oblungo di Riario una bella cinquina, fatto sta che Riario si ritrova Forlì sul groppone e una carica di Capitano della Chiesa che rimane solo sulla carta e non gli dà né potere né stipendio.

Quando il papa era suo zio e aveva i big money della Chiesa, per farsi bello coi sudditi, Riario aveva tolto le tasse e dato inizio a opere pubbliche. Avete presente il “bias dell’ancoraggio”? In breve, è quando il venditore ti spara subito un prezzo altissimo e poi ti viene incontro facendoti lo sconto. Alla fine paghi più di quello che avresti dovuto, ma te ne vai pure contento perché all’inizio ti sei “ancorato” a quella prima cifra assurda e pensi di aver fatto l’affare.

Riario, che ha più o meno l’intelligenza di un bonobo che ha picchiato la testa, fa l’esatto contrario: abitua subito i forlivesi alla bella vita. Adesso, senza più i soldi dello zio papa, se anche ristabilisse tasse inferiori a quelle precedenti, si ritroverebbe i forconi sotto la finestra. Cosa che accade quasi subito.

Nonostante tutto, infatti, le congiure degli Ordelaffi si sono susseguite già da prima, senza mai andare a segno. Ora che Girolamo si ritrova col c*lo per terra i nemici trovano terreno fertile.

Dopo una serie di tentativi falliti – e repressi dai Riario-Sforza nel sangue – la Congiura degli Orsi è quella buona. Gli Orsi sono una famiglia di Forlì che beneficia alla grande del governo di Riario, ottenendo diversi privilegi. Come sempre, se volete farvi qualcuno nemico a vita, aiutatelo. In perfetta osservanza della “sindrome dell’ingrato rancoroso”, gli Orsi organizzano una congiura coi fiocchi.

Il 14 aprile del 1488, mentre è a cena a palazzo, Riario viene ucciso proprio dall’amico Checco Orsi e da altri sicari. Spogliato, il corpo di Riario viene gettato dalla finestra e offerto al popolino che, al grido di “Libertà!”, ne fa scempio. Come sempre, alla violenza del dittatore segue quella ancora più cieca delle folle. E Caterina? La nostra è in quel momento in un’altra ala del palazzo coi figli.

Come d’abitudine, la Tigre non perde il sangue freddo. Anzi, è probabile che dentro sé esulti per essersi liberata del coniuge balordo e intraveda pure un’occasione per fare le sue mosse. Manda i suoi fedelissimi ad avvisare il castellano della Rocca di Ravaldino, Tommaso Feo: non deve cedere la fortezza e deve inviare richieste di soccorso alle signorie di Bologna e Milano. Poi Caterina si consegna.

Gli Orsi vorrebbero ora il comando, ma non sono abbastanza potenti. Il consiglio dei Quaranta e quello degli anziani consegnano la città alla Chiesa e al vescovo Savelli.

Per prendere Forlì, però, deve ancora cadere la Rocca di Ravaldino, e qui Caterina entra nella leggenda. Inganna i congiurati facendosi portare al maniero per convincere di persona Feo a cedere.

Una volta lì, lascia in ostaggio i figli pur di entrare nella fortezza. Appena dentro, però, fa puntare i cannoni verso Forlì e minaccia di radere al suolo la città se qualcuno dovesse toccare la sua famiglia. Alla minaccia di uccidere i figli, la sua risposta è eloquente e leggendaria: “Fatelo, se volete: impiccateli pure davanti a me, qui ho quanto basta per farne altri!” urla la Signora, sollevandosi il gonnellone e mostrando quel che potete bene immaginare.

Si tratta di aspettare e di resistere, due azioni in cui Caterina eccelle, come ha dimostrato a Castel Sant’Angelo prima che il marito mandasse tutto in malora. E il 29 aprile arriva la cavalleria, proprio come in un film western: l’esercito sforzesco, con 12mila uomini, assedia Forlì. Già il giorno dopo i congiurati si danno a una fuga scomposta.

Il 30 aprile Caterina Sforza, che si è appena conquistata l’appellativo di Tigre di Forlì, è infine Signora della città. Ora, può iniziare a togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Il primo è quello della vendetta: Caterina sarà magnanima o si lascerà prendere la mano?

L’ultimo giorno di aprile del 1488, Caterina Sforza arriva dove ha sempre voluto essere, al comando. Tecnicamente, non è la vera Signora di Forlì, ma reggente del figlio Ottaviano. All’epoca è l’unico modo che una donna ha di detenere il potere, ma Caterina non sarà certo un fantoccio nelle mani del potente di turno, anche quando arriva il cardinale di San Giorgio Raffaele Riario con il malcelato intento di fare il burattinaio.

Come prima cosa, Caterina deve sistemare una faccenduola: vendicarsi della Congiura degli Orsi, quella dove hanno fatto secco quel buono a nulla del marito. In cuor suo, con ogni probabilità, la Tigre di Forlì farebbe loro un bel monumento, per averla liberata di quel peso morto, che grazie a loro adesso morto lo è per davvero. La consuetudine, però, esige un massacro: quale migliore occasione per far capire chi comanda?

Caterina ingaggia per lo scopo tale Matteo da Castelbolognese, detto “Babone”. L’incarico è di bargello, ma nei fatti l’uomo è un vero boia. Ci viene in aiuto il cronista forlivese Leone Cobelli, che lascia un colorito resoconto dei giorni della vendetta della Tigre. Babone è descritto come di “grande statura, grosso di persona, crudele di faccia” e coi “capelli torti, bistorti, sudici, brutti, lunghi”. Questo, sappiatelo, per quanto riguarda i pregi dell’uomo.

Babone è in quei giorni giudice e giuria, scova tutti coloro che hanno partecipato anche solo di striscio alla congiura e ne fa scempio pubblicamente.

Cobelli racconta l’esecuzione del vecchio Orsi, patriarca della famiglia ma anche vecchio male in arnese. Per lui non c’è pietà: “Gli sputarono in faccia, gli gettarono della lordura in viso e in bocca, lo bastonarono, gli misero un capestro al collo e lo trascinarono per la cittadella legato ad un asse con la testa a penzoloni e legato alla coda di un cavallo frustato per più giri di piazza. Era il supplizio chiamato a quei tempi: “Tirè a coda ad caval”.

Ah, i bei tempi andati, quando c’erano i veri valori e la gente si sapeva divertire, altro che quei cattivoni del politicamente corretto di oggi! Il bello è che c’è gente che ci crede davvero.

Le esecuzioni e le torture vanno avanti per giorni e Cobelli conclude così il suo resoconto: “Lettore – scrive – certo tu non lo crederesti, ma chi chiamò quella piazza il lago sanguinario, non mentirono. Io te lo dico, che la vidi con i miei occhi, tanto sangue, tante corate, tanti pezzi di carne di quei cristiani, che te ne faresti meraviglia…”

Caterina, però, ha solo iniziato il suo regno. Esauriti i convenevoli, chiarito chi comanda, la donna – che, ricordiamolo, ha solo 25 anni – mette in pratica la sua idea di governo.

Che, a sorpresa, è piuttosto illuminata. Caterina Sforza si occupa di tutto di persona: stringe alleanze con le signorie vicine, combina matrimoni convenienti, riforma il fisco ed è “tremendissima” nel controllare le spese. Istruisce personalmente i soldati al mestiere delle armi, in cui eccelle.

Non solo, la nobile si occupa dell’approvvigionamento delle armi e dei cavalli, di mantenere la neutralità coi tanti Signori confinanti, del bucato e del cucito, e – pare – anche di fare la spesa, giocare la schedina del Superenalotto, comprare “Il Resto del Carlino” tutte le mattine e cantare “Romagna mia” alla messa della domenica. I sudditi fanno presto a dimenticare i massacri e ammirano una così saggia e operosa Signora. La Tigre, però, è solo addormentata e non ci vorrà molto perché si risvegli.

Sono intanto anni complessi per l’Italia, frammentata in signorie numerose e molto litigiose. La morte di Lorenzo il Magnifico rischia di rompere gli equilibri e Forlì, piccola ma posta in una zona di passaggio cruciale per le strategie, si mantiene grazie a Caterina sempre equidistante dalle lotte di potere e – in una parola – dai guai. Il momento peggiore è col “Sacco di Mordano”, ma anche lì, in un miracolo di equilibrismo, la Sforza riesce a non inimicarsi nessuno: francesi, Duca di Milano e papato.

Tutti però hanno un punto debole, e quello di Caterina non tarda a manifestarsi nella scelta scellerata di Giacomo Feo, secondo marito dalla personalità non meno tossica del primo e prototipo del moderno toy-boy, essendo appena ventenne.

Il problema, rispetto a Riario, è che stavolta Caterina se lo sceglie da sola, cercandosi le rogne col proverbiale lanternino.

Proviamo però a metterci nei panni della Sforza, per un attimo.
Figlia illegittima di un nobilone che la considera un buon oggetto per i suoi scambi; tolta in tenera età all’affetto della madre e allevata come un soldato; data in sposa a dieci anni a un maiale che non si fa problemi a consumare il matrimonio perché abbia subito validità legale. Considerando che, per indole, Caterina non è certo una ragazza pucciosa e tenerina e che le donne all’epoca valgano poco meno di un buon cavallo, come non aspettarsi che a un certo punto la sua personalità disturbata non prenda il sopravvento?

La relazione con Giacomo Feo è per Caterina la sciagura più grande, l’inizio della fine della sua storia per certi versi di riscatto femminile e in anticipo sui tempi di secoli. Caterina Sforza è pronta a mostrare il “lato oscuro della forza”, la parte deviata della Tigre.

Quella che vedremo nella prossima puntata.

Qui la prima parte della storia di Caterina Sforza, la Tigre di Forlì.

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