Andrea La Rovere

Ci sono storie bellissime ma sconosciute, fino a quando qualcuno non le racconta

Terry Reid, colui che fece i grandi rifiuti

Terry Reid, colui che fece i grandi rifiuti

Le frasi di grandi artisti che tentano di rendere giustizia a loro colleghi meno famosi, lasciano sempre un po’ l’impressione della citazione senza fonte, della leggenda metropolitana ormai impossibile da verificare, ma questa volta ci provo lo stesso: “In Inghilterra ci sono solo tre cose interessanti: i Beatles, i Rolling Stones e Terry Reid”.

A pronunciare la frase, nel 1968, è la regina riconosciuta del soul, Aretha Franklin.

Ma quel Terry Reid a cui si riferisce con tanta enfasi, nel pieno del periodo aureo del rock, chi è?

Se Celestino V è passato alla storia, quella che conta, come l’uomo che fece il gran rifiuto, in quella minore del rock, Terry Reid è l’uomo che fece i grandi rifiuti.
Come il Bartleby dello stupendo racconto di Melville, l’impiegato che a ogni richiesta lavorativa oppone un educato ma fermo “grazie, preferirei di no”, Terry Reid sembra ostinatamente rifiutare il successo che il talento da cui è baciato gli potrebbe procurare senza grandi sforzi.
E così, nel 1968, Reid rifiuta la chiamata di Jimmy Page. Il chitarrista lo vuole nel suo nuovo progetto, una band che ancora non ha un nome e un’identità precisa e che di lì a poco debutterà come Led Zeppelin. Non solo, Terry, che all’epoca si trova negli States per aprire i concerti del tour dei Rolling Stones ed è anche un valente chitarrista, oltre che vocalist, propone a Jimmy pure il nome di un ragazzo che potrebbe fare al caso suo.

Quel ragazzo è Robert Plant, il cantante che nel giro di due o tre anni entrerà nella storia con la stessa band. Reid, generoso, dà un’ulteriore dritta a Page: ha sentito cantare Plant nei Band of Joy e gli suggerisce di dare un orecchio anche al batterista, un ragazzone di campagna che si fa chiamare Bonzo.
John Bonham sarà il più grande batterista della storia del rock.

Terry Reid all’epoca ha solo diciotto anni ma una fama che già lo accompagna in giro per i palchi di mezzo mondo per le sue incredibili qualità di vocalist e chitarrista; ha già pubblicato un disco, intitolato Bang, Bang You’re Terry Reid, e ne sta per dare alle stampe il seguito, chiamato solo col suo nome.
Due fiaschi commerciali.

Va detto che sono tempi in cui tutto cambia a una velocità impensabile; ogni giorno nascono nuovi progetti e band che spesso non arrivano nemmeno alle soglie della sala di registrazione, nonostante il talento dei musicisti.

Sono tempi in cui la programmazione delle case discografiche ha meno importanza di un trip d’acido uscito male; tempi in cui ragazzi poco più che adolescenti si trovano tra le mani il potere contrattuale che oggi non hanno nemmeno le grandi star internazionali, con carriere trentennali alle spalle.

Reid avrebbe dovuto rinunciare alla sua promettente carriera solista, pagare una penale che forse non poteva permettersi e piantare i numeri uno di allora – i Rolling Stones – nel bel mezzo del tour americano. Il tutto per aderire alla rinascita degli Yardbirds; già, perché questo era il progetto Led Zeppelin, portato avanti da quel Jimmy Page che passava da una band all’altra da anni senza cavare un ragno dal buco.
Contestualizzata, la scelta di Terry pare meno assurda di quello che potrebbe sembrare superficialmente.

L’anno dopo il telefono squilla di nuovo: è un altro chitarrista, anche se forse sarebbe più giusto dire che è l’altro chitarrista, Ritchie Blackmore. Il bizzoso Guitar Hero dei Deep Purple vuole dare una svolta hard al miscuglio di psichedelia e proto-prog del suo complesso; la voce di Rod Evans gli sembra sempre meno adatta.

Terry è anche stavolta irremovibile, e respinge la proposta al mittente; al suo posto arriverà Ian Gillan, che nel giro di un paio d’anni darà vita alla celebre rivalità con Robert Plant. Chi dei due fosse più bravo e amato, non si sa tutt’ora, che il loro conto in banca fosse tra i più alti dello show business è invece fuor di dubbio.

Reid rifiuta anche di entrare nello Spencer Davis Group, ma la cosa passa quasi in secondo piano.

Ma cos’ha per la testa il buon Terry? Anni dopo racconterà che Plant, incredulo, gli avesse fatto presente che tutto quello che ha avuto lui poteva essere facilmente suo.

Reid avrebbe replicato in modo sibillino: “Robert sa quello che avrei potuto avere, ma si è mai chiesto quello che volevo io?”

Certo è che Reid in quel periodo ha in mente tutta un’altra musica rispetto a quella che suona da quando aveva quindici anni ed era partito in tour con i suoi Jaywalkers, al seguito dei Rolling Stones. Un’avventura ai limiti dell’incredibile, con l’isteria delle ragazzine che non gli permetteva neanche di sentire la sua stessa voce sul palco; un’eresia, per un artista puro come lui.

La musica che ha in mente Reid oltrepassa il robusto rock blues a cui l’avrebbero confinato i destini di Led Zeppelin o Deep Purple; un suono che intende mischiare le radici blues col rock, il jazz, il folk e il soul.
Collabora con nomi come David Lindley, Gilberto Gil, Caetano Veloso e Carlos Jobim, ospitandoli nella sua casa nel Cambridgeshire, in un’atmosfera naif e creativa irripetibile. Superlungs, lo chiamano: superpolmoni.
Tra disavventure contrattuali, cambi di etichette e fiaschi commerciali, dal 1973 registra un album ogni tre anni fino al cambio di decade; River, Seed of Memory e Rogue Waves sono album bellissimi ma senza nessun riscontro commerciale.

Nel giro il nome di Terry Reid è di quelli che suscitano rispetto e ammirazione; per tutti gli anni Ottanta, però, l’artista non incide nemmeno un solco e anche in seguito la situazione cambia poco.
Non arriva nemmeno qualche documentarista che lo ripesca; potrebbe andare come per il Buena Vista Social Club o per un musicista di caratura palesemente inferiore come Sixto Rodriguez; per Terry Reid l’oblio è quasi totale.
A parte qualche briciola qua e là, tanto che deve portare le sue Gibson e Rickenbacker al banco dei pegni.

Oggi Reid si è riciclato come collaboratore e turnista per colleghi dal successo più luminoso. Stando alla sua risposta sibillina data a suo tempo a Plant, Reid non nutre rimpianti per quello che poteva essere e non è stato; viene però da chiedersi se sapesse realmente quello che voleva, scambiando la vita da rockstar con quella più patita dell’artista di culto.

Mi piace pensare di sì.

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