Andrea La Rovere

Ci sono storie bellissime ma sconosciute, fino a quando qualcuno non le racconta

Il coraggio di chiamarsi Mike Beuttler

Il coraggio di chiamarsi Mike Beuttler

La storia di Mike Beuttler è emblematica della Formula Uno degli anni ’70. Un ambiente estremamente superficiale e maschilista, dove i piloti erano ammirati per il fatto di rischiare la vita in modo a volte gratuito; diverso era il discorso sulla vita privata. Beuttler non era il più coraggioso e veloce in pista, sicuro. Ma fu l’unico ad avere il coraggio di fare pubblicamente outing.

La Formula Uno in cui correva Mike Beuttler non era esattamente il genere di sport che offrisse la mentalità più aperta a livello sessuale. I piloti erano ancora assimilati a cavalieri del rischio senza macchia e senza paura, esempi di virilità maschia degna dei tornei medievali.

La presenza femminile era massiccia, ma relegata a figure di pura tappezzeria; procaci fanciulle dalle forme generose, vestite come Daisy Duke in Hazzard; shorts lillipuziani e camicie annodate sotto al seno. Chiunque si fosse azzardato a proporre modelli diversi si sarebbe guadagnato gli sguardi sospettosi e le malignità dei bene informati.

C’era un pilota in particolare, in quei primi anni del decennio, che usava presentarsi accompagnato da vistose fanciulle abbigliate in modo appariscente quanto scarno. Il pilota era Mike Beuttler, onesto mestierante da metà schieramento, sempre a un passo e mezzo buono dal genio; gli sguardi che si attirava non erano d’invidia, ma quelli col naso storto e un sorriso malizioso che celava maldicenze. Già, perché era tutta una finta.

Quelle disinibite ragazze erano l’estremo tentativo di adattamento di Mike a un ambiente ostile a quelli come lui; l’unico pilota che nella storia della formula uno fece outing, sebbene anni dopo, dichiarando pubblicamente la sua omosessualità.

Mike Beuttler era nato a Il Cairo il 13 aprile del 1940, al seguito della famiglia inglese votata agli spostamenti dovuti al lavoro del padre. Aveva iniziato a correre tardi, Mike, nel 1964 a ben ventiquattro anni; un’età in cui alcuni suoi colleghi, da Bruce McLaren a Pedro Rodriguez, erano già considerati veterani della massima formula.

Mike no, lui si arrabattava nelle formule minori, senza grandi successi peraltro. Era un pilota ostico e combattivo, ma non certo baciato da quel tipo di talento che ti fa brillare da subito nel mucchio; Mike The Blocker, lo chiamavano, Mike il tappo, tanto era ostinato nel difendere la posizione dai piloti più veloci che lo pressavano.

Arriva il 1968 e per Mike si presenta l’occasione buona. Ralph Clarke è un agente di cambio, un affarista della swinging London, tanto abile quanto chiacchierato. Clarke, infatti, era apertamente gay in un tempo e in un luogo che non erano esattamente ideali per questo tipo di inclinazioni.

Ralph Clarke diventa finanziatore della carriera di Beuttler, prima in Formula 3 e poi in Formula 2. Mike non riesce mai a mettersi veramente in luce, pur rimanendo un pilota solido e affidabile; gli manca sicuramente il colpo del K.O. eppure è capace di portare sempre in fondo monoposto poco competitive. E – dettaglio non trascurabile – di portare a casa la pelle, in un’epoca che quasi ogni settimana doveva fare i conti con incidenti gravissimi, spesso mortali.

Ed è così che nel 1971 si schiudono le porte della Formula 1. I finanziatori sono diventati quattro; oltre a Clarke si aggiungono altri tre affaristi della Londra che conta, David Mordaunt, Allistair Guthrie e Jack Durlacher. I quattro danno allora vita a un team che – con ricercata fantasia – battezzano Clark-Mordaunt-Guthrie-Durlacher Racing, acquistano una March 711, la dipingono di un giallo scintillante e la affidano al loro protetto.

Mike Beuttler realizza così, a trentun anni, il sogno di correre nella massima formula. A moltiplicarsi, però, non sono solo i soldi e i cavalli del motore, ma anche le maldicenze; anche Mordaunt, Guthrie e Durlacher sono notoriamente legati agli ambienti omosessuali e mai come in questo caso i benpensanti sono lesti a dire che due più due fanno sempre quattro.

Tant’è, tra ingenui depistaggi a base di fanciulle procaci e le battutine dette a mezza bocca di un ambiente lontano anni luce dal politicamente corretto di oggi, il buon Mike si trova proiettato nel gotha dell’automobilismo.

Domenica dopo domenica, gomito a gomito nei box con Stewart, Fittipaldi, Peterson e gli altri campioni, tanto vicini nel paddock quanto lontani e irraggiungibili in pista. Ma ben più ostici degli avversari sui circuiti sono la società bigotta nel condannare scelte di vita e inclinazioni naturali, e ancor più l’ambiente. Lo stesso ambiente che di lì a poco sarebbe impazzito per le improbabili avventure da playboy di James Hunt e che metteva la testa sotto la sabbia di fronte a modelli di vita alternativi.

La carriera di Mike Beuttler in Formula 1 va avanti per tre stagioni, sempre con la gialla March dei suoi finanziatori. Solo al Gran Premio del Canada del 1971 il pilota viene convocato dalla scuderia ufficiale sponsorizzata dalla STP. I risultati non sono né buoni né cattivi, una costante nella carriera di un pilota che suo malgrado farà parlare di sé di più fuori dalle piste. Ventinove gare e un settimo posto al Montjuich, Barcellona, nel 1973, come miglior risultato; neppure la soddisfazione di realizzare un punto. Quella più concreta di abbandonare le gare vivo. Nella stessa stagione perdono la vita Roger Williamson e il predestinato Francois Cevert, già stella di prima grandezza.

Il buon Mike The Blocker, con la sua camminata ciondolante e il sorriso malinconico di chi è sempre condannato a non poter essere se stesso appieno, saluta e se va; lo si rivedrà sulle piste solo una volta, qualche anno dopo, alla 1000 chilometri di Brands Hatch.
Mike Beuttler cambia vita. Ripara negli Stati Uniti, forse per fuggire da un ambiente e da quegli sguardi che vorrebbero sapere ma non osano chiedere, accontentandosi della cattiveria sussurrata alle spalle. A San Francisco Mike prova la carriera di giornalista sportivo, anche con qualche soddisfazione. Se sia stato felice non si sa, questo le cronache non lo possono riportare.

Fatto sta che Mike, dopo aver fatto outing, muore ad appena 48 anni nel 1988, condannato dal virus dell’HIV. Ironia della sorte ucciso da quello che, per i soliti benpensanti, era il giusto flagello degli omosessuali. Una volta si stava tutti meglio – come la nostalgia da social non manca di ripeterci giornalmente – ma fortunatamente i tempi sono cambiati, verrebbe da dire.

O forse no, visto l’incredibile bailamme che a fine anni ’80 si scatenò dopo che Piquet adombrò l’ipotesi che Ayrton Senna fosse omosessuale. Al di là della diceria, fa riflettere il fatto che le scelte sessuali di un uomo fossero vissute – vere o false che fossero le voci – come un’onta per un intero paese; quel Brasile che ancora oggi, nonostante l’immagine di paradiso della libertà sessuale, è ricaduto in oscure derive nazionaliste e omofobe.

E visto che ancora pochi anni fa l’ambiente si scandalizzò alle voci delle presunte inclinazioni di un giovane pilota, ironia della sorte, il figlio del grande Nelson Piquet; e che in Moto GP, ambiente affine a quello della Formula 1, un manager italiano alla domanda pruriginosa su presenze gay, si sia sentito in diritto di dire che “no, non ce ne sono, perché un gay potrebbe guidare al massimo un triciclo”.

Non resta che calare un pietoso velo su queste dichiarazioni e immaginare un lieto fine che – per una volta – potrebbe anche esserci stato; quello di Mike Beuttler, un pilota da metà classifica che forse umanamente valeva più di tanti celebrati colleghi e che – ancora forse – trovò la felicità di essere se stesso lontano dal rombo dei motori.

E lontano da quello ancora più assordante dei silenzi maliziosi di quando appariva in tuta e casco.

Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata su Auralcrave. La trovate qui.

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