Andrea La Rovere

Ci sono storie bellissime ma sconosciute, fino a quando qualcuno non le racconta

Dorando Pietri e la gloria di non avere vinto

Dorando Pietri e la gloria di non avere vinto

Alcune storie sembrano predestinate al successo, all’imperitura memoria; ne hanno tutti i prodromi: protagonisti bellissimi e di sangue reale, vittorie epiche e cavalleresche. Poi ci sono storie che cominciano come una favola storta, venuta male, e finiscono per incoronare un uomo di poco più di un metro e mezzo di statura come celebrità mondiale, famoso per non avere vinto. Questa è la storia di Dorando Pietri.

Carpi, settembre 1904
A Carpi lo conoscono tutti, Dorando Pietri.
Il padre è un brav’uomo di Correggio che, stanco di ammazzarsi di lavoro in campagna, è arrivato in città con la moglie e i quattro figli e ha aperto un negozio di frutta.
All’epoca si comincia presto a sgobbare, e Dorando, poco più che un ragazzino, inizia a fare il garzone alla pasticceria Melli.
E corre, Dorando.

È piccolo, ma con la bicicletta o con quelle sue gambette corte e muscolose, corre più veloce del vento, con una resistenza da kenyano.

Nel settembre del 1904 a Carpi organizzano una gara podistica sui diecimila metri; c’è anche Pericle Pagliani, un giovane poco più grande di Dorando ma che si è già fatto un nome per le sue qualità d’atleta e soprattutto d’uomo. Ad aprile a Milano duella con Volpati e – quando questi cade per colpa di uno spettatore – aspetta che si rialzi per poi batterlo in volata.

L’entusiasmo di Dorando, che assiste a una grande competizione per la prima volta, è tale che quando il ragazzo vede passare Pericle, si mette a correre con addosso ancora il grembiule e le scarpe da lavoro della Pasticceria Melli. Pietri è talmente veloce e resistente che anche così tiene il passo del campione fino al traguardo.
Poche settimane dopo inizia a correre a livello agonistico; un trionfo dopo l’altro, tanto che quattro anni dopo il garzone incanterà il mondo alle Olimpiadi di Londra.

Londra, 24 luglio 1908

Nella capitale inglese è una giornata calda e umida, dopo le incessanti piogge dei giorni precedenti. Allo stadio di White City, alla presenza dei Reali, gli spettatori non sanno di stare per assistere a una delle scene che rimarrà nella storia delle Olimpiadi; forse di tutto il Novecento.
Alla partenza della Maratona, in quel penultimo giorno di gare, si sono presentati 56 atleti da tutto il mondo. Per la prima volta la distanza che rievoca quella tra Maratona e Atene è di 42 chilometri e 195 metri; dal 1924 sarà la misura ufficiale della competizione; pochi sanno che allora i metri aggiunti servivano a far arrivare gli atleti proprio davanti al palco reale.

Tra i tanti partecipanti, i favoriti sono il canadese Tom Longboat, della tribù indiana degli Onondaga, e lo statunitense Thomas Morrissey. I due sono i vincitori della maratona di Boston, rispettivamente nel 1907 e all’inizio dell’anno. In disparte, però, non troppo considerato, c’è anche quel ragazzo italiano che a Carpi teneva il ritmo di Pericle Pagliani; Dorando è maturato, ha affinato tecnica e preparazione, ha imparato a vincere dosando le energie; non indossa più la divisa da garzone, ma quella della nazionale italiana, tuttavia non gode certo dei favori del pronostico.

All’inizio Dorando Pietri è guardingo, anche quando Longboat – dopo oltre trenta chilometri – si sente male e viene soccorso dai medici. A sorpresa, a dominare è un sudafricano, Charles Heffron, che arriva a prendersi anche tre minuti di vantaggio sull’italiano.

Heffron, suddito dell’Impero di Sua Maestà, è acclamato dal pubblico, ma è proprio uno spettatore che gli gioca un brutto tiro, offrendogli da bere. Charles accetta ingenuamente e si disseta con voluttà; la bevanda è gelata e Heffron rischia di rimetterci più che una medaglia d’oro; rallenta e, anche quando si riprende, ha un crollo psicologico, facendosi superare da Pietri e dall’americano Hayes.

Nonostante abbia superato un suddito, seppure d’importazione, Pietri compie una rimonta talmente spettacolare – sospetta, per alcuni – da essere acclamato dal pubblico inglese; specialmente quando al secondo posto si pone Hayes, odiato americano.
Pietri è però in difficoltà già prima di fare il suo ingresso nello stadio, dove è previsto l’arrivo; secondo alcune voci, un medico gli inietta della stricnina per indurre il corpo stanco di Dorando alla reazione. Mossa ovviamente vietata.

Vera o no la diceria, Pietri stringe i denti e – quando tutte le altre gare sono ormai terminate – fa il suo ingresso nello stadio, sotto gli occhi di tutti gli spettatori.
Per chi si aspettava l’arrivo di un impotente, prodigioso atleta, la scena ha del comico; a spuntare per primo è un giovane piccolo di statura e dai baffi neri. Non solo, anziché avviarsi a lunghe falcate verso gloria e medaglia d’oro, l’uomo barcolla, appare confuso.

Dorando Pietri sbaglia strada e, quando lo rimettono sulla giusta via, collassa cadendo a terra.
I giudici, impietositi e incoraggiati dagli spettatori che tutto desiderano tranne la vittoria di un americano, lo aiutano a rialzarsi. Una, due, tre, quattro volte.


Dorando taglia il traguardo quasi spinto di peso, trentadue secondi prima di Hayes.
La foto che lo immortala attraversare la striscia finale entra nella storia, condita da una piccola leggenda metropolitana che vorrebbe Arthur Conan Doyle tra gli uomini che lo aiutano. Il medico creatore di Sherlock Holmes è davvero presente, ma tra i cronisti del Daily Mail, e rimane comunque assai colpito dalla vicenda.

Dorando dunque vince; a percorrere gli ultimi 500 metri ci ha messo quasi dieci minuti e, appena tagliato il traguardo, perde i sensi. Gli americani ovviamente non ci stanno e fanno reclamo davanti a una violazione talmente palese, ottenendo immediatamente giustizia.
La medaglia va a Hayes, la gloria e l’amore del pubblico a Pietri.

Gli spettatori sono commossi, la Regina Alessandra in persona pretende che Dorando sia comunque premiato con una speciale coppa d’argento che gli consegna personalmente. Conan Doyle scrive: “La grande impresa dell’italiano non potrà mai essere cancellata dagli archivi dello sport, qualunque possa essere la decisione dei giudici.”
Pietri ha perso all’ultimo metro, nel modo più atroce per uno sportivo, ma la gloria è tutta sua; chi si ricorda più dei medagliati dopo oltre cent’anni?

Conan Doyle avvia personalmente una colletta – che frutterà 300 sterline – per permettere a Dorando di realizzare il suo sogno: aprire una panetteria. Irving Berlin gli dedica una canzone e gli organizzatori di gare fanno la fila per avere la sua presenza.

Dorando correrà ancora qualche anno, vincendo in tutto il mondo e incamerando congrui gettoni di presenza, tanto da investire col fratello in una struttura alberghiera.
Le stimmate della sconfitta, però, sono una cosa seria, così come le capacità di fare impresa: l’albergo fallisce e Dorando si trasferisce a Sanremo aprendo una più umile autorimessa. Vivrà nella città dei fiori fino alla morte, nel 1942.

A Carpi, dove il ragazzo di bottega inseguì in grembiule il campione affermato, e nel punto dove sorgeva il Grand Hotel Dorando, oggi c’è una banca.

In una cassetta di sicurezza è custodita la coppa d’argento di Londra, con incisa la dedica della Regina Alessandra: “A Pietri Dorando – In ricordo della maratona da Windsor allo stadio – 24 luglio 1908. Dalla regina Alessandra.”
Perché anche le favole storte si meritano un lieto fine.

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