Andrea La Rovere

Ci sono storie bellissime ma sconosciute, fino a quando qualcuno non le racconta

Pellizza da Volpedo oltre “Il Quarto Stato”: una vita sfortunata

Pellizza da Volpedo oltre “Il Quarto Stato”: una vita sfortunata

Giuseppe Pellizza da Volpedo, pittore talentuoso e sfortunato. La sua storia di artista impegnato e in anticipo sui tempi.

Diciamo la verità, “Il Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo lo conosciamo tutti.

Chi, almeno una volta, non ha accarezzato l’originalissima idea di postarlo il I maggio? E i marxisti con l’attico in centro? Vi saprebbero dire finanche chi ne è l’autore. Ma non solo, “Il Quarto Stato” è il dipinto che anche il destrorso di aperte vedute – un ossimoro, la mia specialità – conosce. Il nome di Pellizza da Volpedo, poi, così rotondo da riempire la bocca quando lo si cita in qualche salotto buono.

Bene. Eppure, se così su due piedi, vi chiedessi se vi viene in mente qualche altra opera di questo grande pittore, o di dire qualcosa sulla vita sciagurata di Giuseppe Pellizza, nato a Volpedo, provincia di Alessandria, quanti saprebbero rispondere?

Giuseppe nasce in una calda estate del ‘68.
Purtroppo il suo è il ‘68 del secolo sbagliato, l’Ottocento, con l’Italia appena fatta, figlio di contadini benestanti nel ricco Piemonte, culla di un paese unito il giorno prima. Giuseppe è irrequieto, ha il dono dell’arte ma anche quello più fastidioso di stancarsi subito di tutto.

Studia all’Accademia di Belle Arti di Brera, poi a Roma e a Parigi. Non si trova mai bene, neanche quando ci prova a Firenze col grande Giovanni Fattori e poi a Bergamo e ancora a Genova. Alla fine, Giuseppe torna a casa, sposa una ragazza che si chiama Teresa Bidone e che, assieme alla pittura, sarà l’unico punto fermo della sua vita errabonda. E breve.

È allora che aggiunge “da Volpedo” alla firma, un colpo di genio.

Anche a livello tecnico e artistico, Giuseppe è incline al cambiamento e alle ossessioni. Con la sua mano eccezionale dipinge scene contadine, prima in modo classico, poi fissandosi col divisionismo, una tecnica che – a vederla oggi – intuisce prima del digitale la divisione dell’immagine in minuscoli pixel. Allora – ah, ingenui! – li chiamano “puntini”.

Giuseppe è ossessionato dalla luce, come lo sarà poco dopo Hopper di là dall’oceano.

Guardate opere come “Il Sole”: l’astro che sbuca dalla linea dell’orizzonte pare davvero abbagliare, tanto che viene quasi da portarsi una mano sugli occhi a fare da visiera. Ma anche quando dipinge un girotondo, una strada deserta nella controra o dei panni stesi al sole, Giuseppe pare inseguire il miraggio di prendere la luce, addomesticarla e posarla lì, sulla tela. E il bello è che pare riuscirci, a volte.

A un certo punto, però, dopo aver assistito a una manifestazione operaia, Pellizza partorisce una nuova ossessione: “Il Quarto Stato”. Dal 1891, il pittore inizia a modellare quello che sarà il suo capolavoro, l’opera che gli darà l’immortalità, dopo avergli dato in vita solo amarezze. Il primo embrione è un bozzetto intitolato “Ambasciatori della fame” che, attraverso tante versioni e cambiamenti, diventerà anni dopo “La Fiumana”, grande tela prototipo del “Quarto Stato”.

La versione finale, Giuseppe la dipinge tra il ‘98 e il 1901. Un’opera sontuosa, oltre cinque metri per quasi tre, il capolavoro di una vita con cui spera di aprire le menti di chi osserva:

“La questione sociale s’impone; molti si son dedicati ad essa e studiano alacremente per risolverla. Anche l’arte non dev’essere estranea a questo movimento…” dice, come ogni vero artista dovrebbe dire.

E invece, “Il Quarto Stato” è una cocente delusione.

Alla Quadriennale di Torino non lo calcola nessuno e nessun museo lo acquista. Addirittura, le mostre si rifiutano di esporlo per il tema troppo scomodo. Ah, se ci fosse stato Facebook!

Deluso, irrequieto e incline alla depressione, Pellizza trova un po’ di successo a Roma, qualche anno dopo. Purtroppo, è il classico raggio di luce che precede il tracollo: all’improvviso, nel 1907, muore l’amatissima moglie Teresa. Giuseppe non ci prova nemmeno, a resistere: il 14 giugno mette fine alla sua vicenda terrena, ad appena quarant’anni.

La donna che tiene in braccio il bambino, una delle figure in primo piano nel “Quarto Stato”, è proprio Teresa, la moglie adorata. Se guardate all’estrema sinistra della tela, vedrete un’altra coppia. La donna è Maria Albina, la sorella minore di Teresa, e anche lei morirà di tisi nel 1907. L’uomo è il marito, Giovanni Ferrari: anche lui, anni dopo, non reggerà al dolore della perdita e imiterà Pellizza nel suo gesto estremo.

“Il Quarto Stato” è insomma un’opera che nasce nel dolore e nel tormento e che, un secolo dopo, vive il curioso destino di essersi trasformata in un simbolo pop, potente e sfruttato quanto gli angioletti di Raffaello, il ritratto stilizzato di Che Guevara e Jim Morrison o i barattoli di zuppa Campbell di Warhol.

Un’ultima cosa, come direbbe il tenente Colombo: e l’uomo in primo piano, il barbuto serio serio con la giacca sulla spalla, chi è? Si chiama Giovanni Zarri, detto Gioanon, un pacioso falegname di Volpedo che amava discutere di socialismo ed ebbe una vita tranquilla. Tanto per dire che le maledizioni non esistono.

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