La verità era che ormai ogni volta che dovevo tornare al paese lo facevo di malavoglia.
Non che lo facessi apposta, anzi, perdevo anche tempo ed energie a lamentarmi di questo o quell’inghippo che ogni volta mi facevano partire in ritardo, se non addirittura rimandare il viaggio.
Mentivo a me stesso: capita più spesso di quanto vogliamo credere.
La vita a Verona mi aveva sempre più avvinto e l’idea di passare il fine settimana nel mio paesino di poche migliaia di anime non mi entusiasmava.
Le solite chiacchiere dei miei, le raccomandazioni di mamma e il tono confidenziale con cui papà mi prendeva da parte per sapere qualche dettaglio piccante della vita in città; le partite a stecca coi soliti amici al bar di Giovanni.
Amici da cui – dovevo ammetterlo – mi sentivo sempre più lontano, e non era questione di snobismo, o forse sì.
Io adesso stavo a Verona, non una metropoli magari, ma comunque una città importante da duemila anni, a fare l’avvocato in uno studio importante, e loro lì ancora a fare il filo a quelle racchie di paese e a dividersi i turni al cementificio.
Certo, lo studio non era poi così importante e io, per adesso, facevo più che altro il portaborse, ma vuoi mettere?
Anche il rapporto con Adele non mi rendeva meno amaro quel tuffo nel passato di provincia, anzi; eravamo nel 1976, ma nella mia contrada d’origine pareva che la gente fosse rimasta agli anni ’20.
Insomma, tutto questo per dire che anche quella volta avevo trovato mille scuse – più o meno reali – e mi ero ridotto all’ultimo treno del sabato sera per tornare a casa.
Arrivai in stazione trafelato che erano le undici passate: non osavo confessarlo a me stesso ma tutti i contrattempi che mi erano piombati tra capo e collo erano stati propiziati sicuramente dal mio stato d’animo poco incline al viaggio.
In cuor mio – a mia insaputa, per così dire – speravo quasi che la mia corsa fosse già partita. La possibilità c’era, per carità: il convoglio doveva avviarsi alle ventitré spaccate e io arrivai a Porta Nuova che erano passate le undici da dieci minuti.
La mia speranza fu però presto disattesa; il treno – come al solito – aveva accumulato un ritardo mostruoso, a causa forse di agitazioni sindacali, o forse di qualche ostacolo sui binari, chissà? Il tabellone era parco di spiegazioni ma impietoso nel segnalare un’attesa di quasi un’ora e mezza.
Col borsone in spalla e i capelli un po’ troppo lunghi per la mia mansione, mi disposi a passare il sabato sera seduto su qualche panchina della stazione, pronto a essere scambiato per un figlio dei fiori a tempo scaduto dai benpensanti che – statene certi – popolavano anche quella città da più di duecentomila abitanti.
Le poltroncine riservate ai viaggiatori in attesa, in quello scorcio dell’edificio, erano numerose e quasi tutte vuote, c’era solo l’imbarazzo della scelta.
E invece mi andai ad accomodare proprio nella fila di fronte all’unica seduta occupata, come attratto da una forza superiore e misteriosa che emanava dalla figura assisa.
Il viso non riuscivo a vederlo, seminascosto dal volume che la donna stava leggendo, ma ipotizzo che la scelta di avvicinarmi non fosse indipendente da ciò che era visibile.
La giovane portava degli short di jeans all’ultima moda che le lasciavano scoperte le gambe magre ma tornite; un paio di scarpette da tennis della Puma e una camiciola a quadri completavano la mise. Mi sedetti quasi di fronte e – con la massima nonchalance – appoggiai il borsone sulla poltroncina accanto alla mia ed estrassi una copia di Ciao 2001.
Iniziai a leggere con grande concentrazione, o almeno questa era la sensazione che cercavo di dare; in realtà, ogni tanto dardeggiavo un’occhiata alla figura che mi stava davanti.
Lei non aveva in alcun modo dato mostra di aver notato il mio arrivo, cosa che mi convinse che l’aveva fatto eccome.
Il libro che stava leggendo con tale ostentata convinzione era una raccolta di poesie di Fosco Maraini, un autore che conoscevo per caso, noto per i suoi esperimenti meta-semantici. Pensai tra me a come giocarmi quel jolly che la sorte mi offriva su un piatto d’argento. In definitiva, qualsiasi altro poeta avesse potuto leggere, con ogni probabilità mi sarebbe risultato sconosciuto.
Cercavo di sbirciare un po’ meglio le fattezze del volto nascosto che – di tanto in tanto – balenava nell’atto di girare le pagine o di dare una distratta occhiata all’orologio. La ragazza era meno giovane di quanto lasciasse intendere il suo abbigliamento, poteva avere trenta o trentacinque anni; nella peggiore delle ipotesi una decina più di me, cosa che avrebbe suggerito di lasciar perdere qualsiasi approccio.
I capelli erano castani, legati con una lunga coda di cavallo. Il viso era piuttosto spigoloso, con la bocca sottile e il naso più lungo del necessario e con una leggera gobba. Gli occhi, pur celati da grandi occhiali con la montatura di bachelite nera, erano ciò che dava a quel volto un fascino innegabile: mobili, vispi, larghi ma leggermente allungati, di un colore chiaro che da quella distanza potevo solo indovinare, e bistrati in modo appena accennato.
Ne fui conquistato all’istante.
Non che fosse una novità, per me.
Mi capitava continuamente di invaghirmi delle donne che incrociavo allo studio, sull’autobus o nell’insensato via vai per le strade di Verona. Eppure, quello sguardo così intenso aveva qualcosa – valutai tra me – per cui era inevitabile perdere la testa.
Avvinto da questi pensieri dovevo essermi attardato un attimo di troppo a sbirciare; la donna abbassò per un momento il volume, appoggiandolo sulle gambe nude incrociate e mi fissò con una durezza nello sguardo che vinse le mie ultime resistenze.
Non disse nulla ma l’occhiata fu eloquente, tanto che – intimidito – tornai subito con gli occhi alla rivista che fingevo di leggere.
Lei scosse la testa e sospirò, riprendendo la sua lettura.
A un tratto udii la mia voce dire qualcosa, senza che ne fossi minimamente intenzionato: “È proprio vero, il lonfo non vaterca, né gluisce, e solo raramente barigatta!”
Non so da dove mi fosse venuta l’ispirazione, tantomeno da quale recesso della mia memoria pescai quei versi di Maraini, ma l’idea sortì comunque qualche effetto sulla presenza di fronte.
La ragazza abbassò di nuovo il volume e mi fissò; stavolta, però, nel suo sguardo non c’era severità, ma una sorta di comprensione e accettazione. Rimase qualche secondo a fissarmi, tenendomi sulla graticola, poi rise, di una risata cristallina e argentina, ancora scuotendo il capo, divertita.
“Non attacca, eh?” feci io, giocandomi la carta del seduttore imbranato.
“No, – rispose lei, con una voce soffusa che non mi aspettavo – ma sono colpita. Uno che legge Ciao 2001 e conosce le poesie di Fosco Maraini.”
Con un gesto automatico e frutto di estremo imbarazzo posai subito la rivista. Se avessi potuto l’avrei fatta sparire, tritata, bruciata, insomma: polverizzata.
“Ah, guarda, la leggevo così, per curiosità… non è nemmeno mia, pensa! Forse qualcuno me l’ha infilata nella borsa.”
Era proprio vero: quando si cade nelle sabbie mobili si deve rimanere fermi ed evitare qualsiasi movimento, altrimenti si rischia solo di affondare più velocemente. Io andavo giù alla velocità della luce.
“Peccato! Io, invece, amo tanto il rock e il Banco è uno dei miei complessi preferiti” se ne uscì lei, riferendosi alla copertina di quel numero, dedicata al Banco del Mutuo Soccorso, un gruppo di musica progressiva tra i migliori d’Italia.
Il problema era che anch’io amavo molto quella musica, anche se il Banco non era proprio la mia prima scelta, ma non potevo certo rimangiarmi quello che avevo appena detto. Ero caduto in una grave contraddizione, mi dissi, dandomi dello scemo due volte perché iniziavo a ragionare come l’avvocato Scalia, il principe del foro a cui facevo lo schiavetto.
La ragazza mi scoccò ancora uno sguardo malizioso, poi sparì di nuovo dietro il suo maledetto volume di poesie meta-semantiche.
Qualcosa nel suo modo di fare, però, mi aveva incoraggiato.
Aspettai qualche secondo, poi – raccogliendo tutto il coraggio che possedevo – mi alzai, feci un passo verso la sua fila di poltroncine e le tesi la mano: “Ricominciamo tutto da capo? Io mi chiamo Lorenzo, e sono un gran coglione!”
Lei posò il libro accanto a sé, dopo avere segnato la pagina con un’orecchietta all’angolo, mi strinse la mano in modo vigoroso – quasi maschile, avrei detto – e fece, ghignando: “Che peccato, mi stavo divertendo così tanto! Mi chiamo Anna Laura.”
Iniziammo a chiacchierare con naturalezza, quasi come due vecchi amici.
Non avevo nemmeno osato sperare che aspettasse il mio stesso treno; infatti, lei era diretta a Firenze con una corsa che sarebbe partita più o meno allo stesso orario – ritardato – della mia. Se non altro avevamo un’ora da passare insieme.
Parlammo di musica: io ero un discreto chitarrista, ma non avevo mai suonato in un gruppo, troppo preso dagli studi e dalla fuga dal mio asfittico paesino; lei aveva un sacco di conoscenze nell’ambiente, addirittura era amica di alcuni musicisti che avevano suonato negli Area e negli Stormy Six, due complessi alternativi che militavano all’estrema sinistra della scena.
Come accade quando si innescano delle affinità elettive, gli argomenti venivano da soli, si accavallavano e susseguivano tra un “ma dai!” e un “anch’io!”. Succede raramente una tale armonia di pensiero, e quasi esclusivamente con persone appena conosciute, quando tutto è nuovo e visto attraverso le particolari lenti deformanti dell’accattivante novità.
Anna Laura aveva trentasette anni, ancora peggio di quanto pensassi per le mie velleità di conquistatore pendolare, era separata e si occupava di non meglio precisate questioni sindacali. Poco prima di mezzanotte decidemmo di andare al bar a prendere un caffè.
D’istinto mi chinai per prenderle il borsone: in fondo venivo dal paese ed ero stato allevato con un’educazione di vecchio stampo. La sua reazione mi gelò. Fulminea, Anna Laura allungò il braccio e mi impedì di aiutarla; si alzò e si mise con un gesto sicuro la borsa a tracolla. Pareva piuttosto pesante.
“Ehi, che ci porti là dentro? – le feci io, cercando di riportare l’atmosfera sui sicuri binari dello scherzo – Una mitragliatrice?”
“Non è che sei uno sbirro?” mi fece lei, con uno sguardo che mi paralizzò, poi scoppiò a ridere e mi diede una pacca sulla spalla: “Guarda che scherzo, fessacchiotto! È che sono una femminista di quelle toste, non mi piace che nessuno mi tratti come una bambolina. Le mie cose me le porto da sola, se il gentiluomo Lorenzo me lo permette”.
Rincuorato dal tono spiritoso, le feci un pomposo inchino e lasciai che mi precedesse al bar.
“Non sopporto le stazioni, mi mettono addosso una tristezza che non saprei nemmeno definire” me ne uscii a un tratto, fissando il fondo della tazzina. Avrei voluto dire qualcosa che imprimesse una svolta a quella conoscenza occasionale, in quei pochi minuti che ci restavano, ma mi venne fuori solo quella banalità.
“Eppure, le stazioni sono il punto psicologico più vicino alla propria casa, disse una volta Flaiano” mi rispose lei, come se si fosse preparata quella frase prima di uscire di casa.
“Allora sarà per quello! – replicai con una prontezza che mi sgomentò – Non è che abbia poi così voglia di partire. Anzi, preferirei restare qui con te a bighellonare tutta la notte.”
Lei non rispose, ma mi prese a braccetto e – dopo aver pagato il caffè – mi guidò verso le scale.
“Dove mi porti?” le dissi avvicinandomi all’orecchio. Aveva un profumo delicato che non avrei saputo descrivere.
Salimmo fino al binario tre, e lei, facendo il gesto di una sventagliata col braccio destro, disse: “Ecco, non so perché, ma volevo che vedessi questo posto.”
Mi guardai intorno: oltre ai binari non mi pareva ci fosse granché da vedere, se si eccettuava l’enorme orologio, qualche vettura abbandonata su dei binari più lontani e un senzatetto che se la dormiva beatamente su una panchina. Iniziavo a pensare che Anna Laura fosse un po’ svitata. Una bellissima svitata.
Glielo dissi.
“Stupido! – mi fece lei – Non puoi capire, ovviamente. Tu vedi solo binari e una notte un po’ triste. Io vedo i miei quindici anni, quando con le amiche saltavamo scuola e passavamo tutta la mattina a girare per i binari, tremando al pensiero che in città ci avrebbe visto qualche professore. O, peggio, i miei.”
Così dicendo si era un po’ incupita.
Mi arrischiai a prenderle una mano: nonostante fosse il 31 di luglio e ci fossero almeno una trentina di gradi, era fredda.
Lei mi fissò seria, con gli occhi che mi parvero lucidi, poi si avvicinò di più e mi baciò. Un bacio vero, lungo e profondo. Si staccò piano e mi fece una carezza sulla guancia: “Vedi, stupido, qui ho dato il mio primo bacio, un autunno di tanti anni fa.”
Rimanemmo un po’ così, con le mani intrecciate, senza dire nulla. Poi lei guardò l’orologio e quasi urlò: “Cristo, è ora! Il mio treno sta per partire!”
Ci avviammo quasi correndo per le scale, scendemmo e risalimmo al binario giusto.
Io avvampavo, non solo per la corsa. Mi sembrava tutto così romantico e al tempo stesso ingiusto; tra noi si era creata un’intesa che non capita quasi mai nella vita reale, mi sembrava che tutto fosse uno spreco inaccettabile. La fermai, mentre la voce dell’altoparlante diceva che la sua corsa sarebbe partita da lì a qualche minuto, invitando i passeggeri ad affrettarsi: “Aspetta, Anna Laura! Rimani qui con me, passiamo la notte insieme, qui a Verona!” mi rendevo conto che le mie sembravano le parole di un folle.
“Tu sei pazzo…” mi disse lei, infatti. E chi poteva darle torto.
“Almeno scambiamoci i numeri di telefono, non so nemmeno il tuo cognome!” la implorai, ma lei mi guardò con quella che mi parve tenerezza, mi sfiorò appena le labbra, e salì sul treno.
Osservai il mostro di ferro partire lentamente, colto da una malinconia che mi faceva sentire come se fossi in un dannato romanzetto da quattro soldi. Durò poco: mi resi conto che anche il mio rendez-vous coi binari era prossimo e corsi di nuovo per le scale.
Riuscii a salire sull’espresso con un paio di minuti d’anticipo e – vinto da una stanchezza che era più mentale che fisica – precipitai in un sonno agitato.
Fu un signore di una certa età a svegliarmi alla stazione; scendeva anche lui al paese e ci conoscevamo di vista. Mi alzai di scatto e – nella confusione – mi dimenticai perfino di ringraziarlo. Immaginai che mi avesse preso per un pazzo, e del resto il mio comportamento suggeriva che fossi fuori di me.
Rincasai a notte fonda, facendo del mio meglio per non destare i miei. Il loro era il sonno dei giusti, non meritavano certo la mia ritrosia nel farmi rivedere a casa; nonostante tutti i loro discorsi strampalati, erano dei buoni diavoli.
Mi ci vollero pochi minuti per riprendere il riposo interrotto bruscamente.
La domenica del villaggio – se mi passate la citazione – passò in modo quasi surreale. Il ricordo della breve avventura notturna era quasi scomparso, assorbito dalla consuetudine della giornata di festa in famiglia, il pranzo a cui partecipava anche Adele e il rito del Gran Premio di Formula 1 visto al bar con gli amici.
La presenza di Anna Laura era rimasta sotterranea come un fiume carsico, pronta a riaffiorare da un momento all’altro. Quello, però, non era un primo agosto qualunque: al bar di Giovanni assistemmo sgomenti all’incidente di Niki Lauda, nella corsa che si disputava in Germania. Il pilota era uscito di strada e aveva urtato le rocce; la Ferrari era diventata una palla di fuoco che rimbalzava da un lato all’altro della pista come in un flipper impazzito.
L’evento aveva avuto una risonanza inimmaginabile, non si parlava d’altro, tanto che l’incontro con Anna Laura, che tanto mi aveva impressionato solo poche ore prima, era finito relegato nei recessi più nascosti della mia mente.
Quando, la mattina dopo di buon’ora, mi avviai a prendere il treno per tornare a Verona ero meno baldanzoso del solito. Non si sapeva ancora se Lauda si sarebbe salvato, un po’ per le gravi ustioni, un po’ per la quantità di gas tossico inalato.
Appena arrivato in ufficio mi impadronii della copia della Stampa che l’avvocato Scalia acquistava invariabilmente ogni mattina all’edicola della piazza. Tutti i titoli erano per l’incidente di Niki Lauda.
Più in piccolo si parlava del PCI e della probabile astensione nel voto di fiducia all’ennesimo governo Andreotti e dell’emergenza per la nube tossica del Seveso. Presi subito a sfogliare il quotidiano, alla ricerca di notizie sulla salute del pilota austriaco, di cui ero un fervente ammiratore, sperando di trovare qualche aggiornamento. Sapevo in cuor mio che ciò non era possibile: il giornale era andato in stampa nella notte, non poteva riportare altro che i fatti che già ben conoscevo.
Eppure, giravo le pagine comunque con foga, come se una rivelazione fosse celata tra i fogli di carta. E alla fine, seppur diversa da quella che mi aspettavo, un’epifania arrivò davvero.
Mentre continuavo a usare violenza a quella povera copia della Stampa, qualcosa attirò la mia attenzione in modo quasi subliminale, tanto che dovetti tornare indietro senza sapere bene cosa stessi cercando. Nelle pagine centrali una foto sgranata pareva fissarmi negli occhi, fin quasi a scandagliarmi l’anima.
Era Anna Laura!
Certo, era un po’ più giovane e portava i capelli in un altro modo, ma lo sguardo era proprio il suo.
Lessi la notizia, in preda a un presentimento oscuro.
A quanto scriveva il cronista, la donna – di cui erano citate solo le iniziali, A. F. – era stata vista fuggire dopo un attento terrorista a Firenze. La vittima era Ennio Renzi, storico esponente della Democrazia Cristiana e figura chiave del partito. Una sorta di eminenza grigia.
Il collega Proietti, un altro avvocato dello studio, entrò e mi disse qualcosa, ma io ero come in trance e non gli risposi nemmeno. L’attentato pareva il più classico delle Brigate Rosse: la donna era arrivata in moto, con un complice, e gli aveva sparato alle gambe. Renzi stava rincasando a tarda notte, dopo una riunione di partito.
Un testimone aveva fornito la descrizione della donna, permettendo di risalire all’identità di una delle brigatiste più attive e pericolose della capitale.
I colpi sparati erano giunti a destinazione, probabilmente in modo più efficace del previsto: uno aveva colpito Renzi all’arteria femorale. L’uomo lottava tra la vita e la morte.
La donna era ricercata in tutto il paese.
Tra lo stupore dei presenti, gettai il giornale sulla scrivania e mi slanciai fuori dall’ufficio, come in preda a un raptus di follia. Per le scale mi disfeci il nodo della cravatta, che mi impediva di respirare, e uscii in strada. Corsi all’edicola e comprai tutti i quotidiani.
Nella copia di Repubblica trovai quello che cercavo: la donna si chiamava Anna Laura Fontana, ed era ricercata per una serie di precedenti attentati politici. Pare avesse anche ucciso – in uno scontro a fuoco – un esponente dei NAR.
Mi salì all’improvviso un conato di vomito; corsi in un vicolo e mi liberai, sotto lo sguardo severo di un grasso gatto rosso. La testa pareva esplodermi, non riuscivo a dare un senso agli eventi di sabato sera: eventi che mi sembravano talmente lontani da appartenere quasi a un’altra vita.
Improvvisamente, con un cortocircuito mentale che altre volte mi sarebbe capitato di notare, fu un dettaglio a riportarmi sulla terra e a scuotermi da quello stato.
Anna Laura Fontana, così si chiamava.
Anna Laura: si era presentata col suo vero nome.
Qualcosa doveva pur voler dire, anche se non avrei saputo dire cosa.
Il fatto, inspiegabilmente, mi mise di buon umore.
Ennio Renzi morì qualche giorno dopo.
Niki Lauda si salvò e poche settimane dopo arrivò quarto a Monza.
Di Anna Laura Fontana non seppi mai più nulla.
Né io, né chi le dava la caccia.
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