Andrea La Rovere

Ci sono storie bellissime ma sconosciute, fino a quando qualcuno non le racconta

“Quattro misteri per Sherlock Holmes”: il primo capitolo

“Quattro misteri per Sherlock Holmes”: il primo capitolo

Nell’inverno tra il 1894 e il 1895, il signor Sherlock Holmes soffrì di un grave esaurimento nervoso. In qualità di medico, prima ancora che di amico, gli consigliai un lungo periodo di riposo.

Dico consigliai, ma la mia – in un certo senso – fu una vera e propria imposizione. Il super lavoro a cui Holmes aveva sottoposto le sue straordinarie facoltà mentali lo aveva ridotto effettivamente in uno stato pietoso. Qui il libro

Holmes si trascinava nel suo appartamento al 221B di Baker Street per intere giornate, nell’apatia più totale. Quasi mai si toglieva la veste da camera e da settimane non indulgeva in nessuno dei suoi passatempi preferiti, ovvero suonare il violino e setacciare le varie edizioni dei quotidiani alla ricerca dei fatti più bizzarri, quelli in grado di solleticare il suo peculiare ingegno. Molti lo cercavano per sottoporre alla sua mente acuminata problemi insolubili, ma l’investigatore più celebre di Londra non accettava di vedere nessuno.

Se Holmes aveva lasciato del tutto da parte quelle attività in cui eccelleva, lo stesso – ahimè – non poteva dirsi per i suoi vizi. Fumava in modo eccessivo e aveva inoltre ripreso a iniettarsi una soluzione di cocaina al sette percento. Come sodale e medico, vedere quell’uomo formidabile in uno stato simile era una vera e propria tortura; proprio lui, col suo temperamento risoluto e che tante volte avevo visto entrare in azione con la velocità di una folgore, ridotto a una larva. Eppure, io stesso sapevo che il carattere di Holmes ben si prestava a questi sbalzi d’umore. In quel periodo a prevalere era una depressione profonda.

Il consiglio fu quello di viaggiare, girare magari l’Europa alla ricerca di bellezze e monumenti, o attraversare l’Italia alla maniera del Grand Tour degli scrittori del secolo precedente. Holmes – pur nella sua presunzione – capiva benissimo che qualcosa non andava nel suo comportamento, ma era refrattario alla cultura intesa nel senso più comune. Mi accontentò, quindi, ma solo in parte, volendo ritirarsi in un villaggio nel nord dell’Inghilterra, vicino a Kingston Upon Hull, nello Yorkshire. Lì pare che avesse soggiornato per certi suoi studi quand’era più giovane; avrebbe affittato un piccolo cottage nelle verdi campagne di quei luoghi, cercando di scuotersi e di concludere la stesura di un trattato sui veleni che lo aveva tanto appassionato solo qualche mese prima.

Io fui comunque felice della sua scelta. La mia specializzazione non era certo curare i mali dell’animo, tuttavia sapevo bene che in questi casi accettare l’esistenza di un problema, e prendere la decisione di muovere un passo nella direzione giusta, erano i primi segni sulla via della guarigione.

Promisi a Holmes che ci saremmo tenuti in contatto e che – appena gli impegni me lo avessero permesso – sarei andato a trovarlo per un po’ di giorni. In fin dei conti, rivedere le verdi terre dello Yorkshire non mi dispiaceva affatto; purtroppo, i tanti impegni con la mia professione mi avevano impedito di dare seguito ai miei propositi, fino a un giorno di gennaio, in cui ricevetti un telegramma del mio buon amico.

Holmes mi pregava di raggiungerlo non appena avessi potuto, per dargli una mano a sbrigare un’intricata matassa che gli si era presentata davanti. Il tempo di sistemare i miei affari più urgenti e partii in preda a genuina curiosità. Non solo, seppure nella fredda forma del telegramma, nelle parole di Sherlock Holmes mi era parso di trovare quella scintilla di vitalità che da mesi era andata spegnendosi.

Così – in un piovoso pomeriggio di qualche giorno dopo – arrivai alla stazione di Kingston Upon Hull, a poca distanza dal punto in cui il fiume Hull si getta nell’Humber. Non avevo mai amato particolarmente viaggiare in treno e nemmeno le scarne geometrie delle stazioni, così fu con uno stato d’animo non troppo leggero che mi accinsi a scendere dalla vettura, non prima di aver recuperato il piccolo bagaglio; la giornata di pioggia non migliorava certo la situazione, dando a quello scorcio di Hull – così la chiamavano gli abitanti del luogo – un connotato piuttosto lugubre. Mi accingevo a cercare una carrozza per Goodmanham, il villaggio presso cui era situato il cottage affittato da Holmes, quando mi sentii toccare un fianco con la punta di un bastone: “Cos’è, Watson, non si salutano più gli amici?”


La voce era quella inconfondibile di Sherlock Holmes, e grande fu il mio stupore quando vidi che era venuto a rilevarmi di persona: gli avevo detto che l’avrei raggiunto a giorni ma senza specificare la data precisa.


“Che io sia dannato, Holmes! Come avete fatto a sapere con quale treno sarei arrivato? Non finirete dunque mai di sorprendermi?”
“Al solito, mio caro Watson, mi sopravvalutate. Scommetto una sterlina che appena vi svelerò il mio ragionamento direte che era la faccenda più semplice del mondo!”
“Nemmeno per idea, non so proprio da cosa abbiate dedotto l’ora precisa del mio arrivo.”
“Ve lo ripeto, Watson, voi date connotati quasi soprannaturali alle mie deduzioni, lo fate anche in quei simpatici resoconti che vi ostinate a scrivere.”
“Per l’amor del cielo, Holmes, non tenetemi sulla graticola! Come diavolo avete fatto, dunque?”
“Semplice, visto il vostro ritardo nel darmi notizie, ho scritto un telegramma alla signora Hudson, che – sempre solerte – non ha tardato a farmi sapere il vostro orario di partenza. Una breve indagine alla stazione ha risolto questo ben misero mistero.”
“Maledizione! Era davvero ovvio, avevate ragione.”


Holmes, che non era certo un tipo espansivo, mi diede una pacca sulla spalla: “Su, non statevi a tormentare. Piuttosto, diamoci da fare, c’è già una carrozza che ci aspetta fuori dalla stazione, saremo al cottage al tramonto e avrò modo di raccontarvi tutto davanti al fuoco del camino e con un buon bicchiere di brandy in mano.”
Nulla da dire, sembrava un’altra persona dall’Holmes apatico e depresso che avevo lasciato da poche settimane; era evidente che i casi bizzarri, così stuzzicanti per lui, l’avevano seguito in quelle lande lontane.

Incurante della pioggia, che andava aumentando d’intensità e delle pozzanghere che sorgevano numerose a ogni passo, Holmes mi guidò fino alla carrozza, salimmo e con un colpo di bastone al soffitto del mezzo, l’investigatore diede il segnale di partenza al cocchiere. Era eccitato da chissà quale mistero, ma durante il viaggio non ci fu verso di farlo sbottonare, parlammo della signora Hudson, della vita nella capitale e di altri argomenti che in genere poco attiravano la sua attenzione; Holmes era ciarliero e io non potei che rallegrarmene.

Il viaggio durò poco meno di un’ora, tempo tuttavia sufficiente a portarci lontani da qualsiasi segno di civiltà; osservavo il paesaggio scorrere fuori dai finestrini appannati, che ogni tanto cercavo di pulire con la manica del cappotto. Il territorio era pianeggiante, anche se non privo di ondulamenti impercettibili; le campagne si perdevano a vista d’occhio, in verità piuttosto ridotta, considerando che la pioggia stava per trasformarsi in un fortunale; una fitta nebbia andava calando insieme all’oscurità che iniziava ad avvolgerci.


Durante il tragitto su quelle strade di campagna incontrammo pochi viandanti, mentre i tuoni e i lampi che avevano preso a illuminare a giorno il cielo non poterono far altro che aumentare la mia sensazione di trovarmi in una landa lugubre e spettrale, sicuramente inospitale. L’umore di Holmes non pareva invece risentirne affatto, ma conoscendolo bene sapevo che, quando le sue facoltà erano occupate da un mistero, la realtà che lo circondava aveva scarso influsso su di lui.

Arrivammo al cottage che la notte era già calata.
La costruzione era appena fuori l’abitato di Goodmanham, che avevamo attraversato sotto la pioggia incessante. Le strade erano deserte e le finestre fiocamente illuminate, quasi fossimo in uno di quei racconti di fantasmi tanto cari alla nostra letteratura gotica. Una vaga inquietudine mi aveva colto, come se sul paesino gravasse una qualche oscura maledizione, ma attribuii il mio fosco stato d’animo al tempaccio che mi aveva accolto e cercai di concentrare la mia attenzione su Holmes.


Scendemmo di corsa dalla carrozza, dopo che il mio amico ebbe regolato i conti col cocchiere e – riparandoci dal fortunale alla meno peggio – ci avviammo alla temporanea residenza di Holmes. Non eravamo ancora arrivati al portone d’ingresso, l’uscio si aprì e potemmo entrare al riparo, con uno scoppiettante fuoco acceso nel camino in pietra. Una signora dalle guance rubizze ci diede un caloroso benvenuto e prese i nostri cappotti; seppi in seguito da Holmes che si trattava della signora Murray, una donna che gli faceva da governante da quando era arrivato nello Yorkshire.


Il mio coinquilino era sempre stato un disastro nelle faccende di casa e si era ben organizzato per avere qualcuno che badasse a quelle che per lui erano sempre state incombenze di poco conto, per esempio accendere il fuoco e trovare un piatto caldo in tavola.


La governante mi fece una buona impressione, e fui contento che Holmes si fosse ritrovato in mani degne, tuttavia quando fu il momento per lei di tornare a casa mi parve perdere il buonumore. Pensai che fosse perché avrebbe dovuto avviarsi sotto quella specie di tempesta, tra pioggia, nebbia e un vento gelido che ti penetrava le ossa, ma quello che disse a Sherlock Holmes all’atto di prendere commiato mi lasciò perplesso: “State attento, ragazzo mio – fece al suo indirizzo, mettendogli una mano sul braccio – le prossime saranno notti di plenilunio. Non fatevi trovare fuori col buio e non dimenticate di lasciare una bacinella d’acqua fuori dalla porta!”


Holmes prese quella sua aria rassicurante, che tanto spesso sfoggiava con le persone anziane e superstiziose: “State tranquilla, signora Murray, non ho nessuna intenzione di vagare per le campagne di notte, specie con questo tempaccio!”
La signora Murray lo guardò come se volesse aggiungere qualcosa, dopodiché si voltò verso di me facendo un rispettoso cenno di saluto, indossò un pesante pastrano e uscì nella sera.

Qui altri post e storie sull’arte: Andrea La Rovere

Qui i miei racconti

Torna in alto
Facebook