Andrea La Rovere

Ci sono storie bellissime ma sconosciute, fino a quando qualcuno non le racconta

Racconti: “Avventura a Corfinio”

Racconti: “Avventura a Corfinio”

La cosa bella del mio vecchio lavoro era girare tutto l’Abruzzo, quello più vero, quello dei vecchi borghi e delle radici.
Ogni giorno un posto diverso, la bella gente dei paesi di campagna, i panini consumati sul sedile del furgone e la vita sulla strada, per dirla con quello sfattone di Kerouac.

Il sole canicolare e spietato l’estate, la pioggia monotona d’autunno e la neve che ammantava le umane miserie d’inverno.

Almeno per la prima settimana.
Poi una rottura di palle che non vi dico.

Fatto sta che quel giorno me ne stavo a fare un giro assurdo di consegne per sperduti paesini dell’aquilano. Il percorso previsto era talmente ondivago che pareva l’avesse tracciato un ubriaco con la benda; gli opuscoli che i ragazzi dovevano distribuire – delle offerte di un modernissimo centro dimagrante – a quei paesani di età media attorno al secolo e mezzo, rendevano il tutto blandamente grottesco.

Il furgone era un vecchio Iveco Daily ex Saitem, grigio e verde e con una caratteristica che spiccava sulle altre: quando pigiavi il pedale del freno non succedeva nulla, allora pigiavi più forte e all’improvviso le ruote si bloccavano stridendo.

Un giorno, parlando col titolare, gli descrissi la situazione dell’impianto frenante come “scabrosa”; quello guardò me, poi l’assistente – che era pure l’amante e di lì a poco gli avrebbe lasciato un buffo di quelli fatti bene – e poi di nuovo me: “Che vuol dire scabrosa?”

La compagnia era ben assortita: due ragazzi senegalesi, un veterano e un novellino, Sene e Mamadù. Il primo non riusciva a tenere la bocca chiusa manco per scommessa e si lamentava in continuazione di tutto, l’altro era gentilissimo e non parlava quasi mai, anche perché non spiccicava una parola d’italiano.

Insomma, arrivammo a Corfinio, che sarà pure stata la prima capitale d’Italia ai tempi della Lega Italica, ma adesso è quello che è.

In giro non c’era un’anima, pareva uno di quei villaggi dei western con John Wayne e Dean Martin.
Manco il tempo di spiegare a quella coppia d’assi cosa fare che si fermò proprio di fianco una pattuglia di carabinieri: qualcuno dietro le finestre evidentemente c’era e li aveva chiamati.

Figuriamoci, un furgone scassato, un mezzo capellone con gli occhiali neri e due ragazzi di colore: c’era di che sbatterci in cella di sicurezza senza passare dal via.
Uno dei due scese e si avvicinò con la mano sulla fondina: non vedevo un coglione fatto e finito come quello da quando mio fratello era andato via di casa.

A farla breve, finì che ci portarono al comando di Raiano, una vera metropoli al confronto, e ci tennero mezza giornata a girarci i pollici in una specie di sala d’attesa.
A un tratto entrò il carabiniere di prima – il coglione, per capirci – e con la faccia di quello che fa un’eccezione solo perché sei tu, mi prese da parte: “Senti a me, amico, stiamo per perquisire il furgone: se c’è nascosto qualcosa dillo adesso, così la cosa è meno grave.”

Io rimasi con la bocca aperta come nei fumetti di Paperino, tanto che temetti mi fosse spuntato un punto interrogativo sopra la testa, e me ne tornai a sedere, spalancando le braccia.
Chissà, magari quel volpacchiotto di paese pensava di sventare un nuovo undici settembre: dopo New York, Corfinio, gesùcristo.

Quelli perquisirono e smontarono e fecero quello che gli passava per la testa; si era fatta ora di pranzo e noi tre ci mangiammo i panini.
Al muro c’era appeso un bando per arruolarsi volontari: età massima, 26 anni.
Io ne avevo ventotto: quel giorno non me ne andava dritta una.
Guardai quei due poveracci che addentavano i panini, abituati a quelle attese e forse pure a essere scambiati per delinquenti.
Mi sentii vecchio e pensai che i bei giorni erano finiti.

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Questa storia è tratta dai racconti della pagina Facebook, dove è stata pubblicata in origine.

Ogni riferimento a fatti o nomi reali è del tutto casuale.

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