Andrea La Rovere

Ci sono storie bellissime ma sconosciute, fino a quando qualcuno non le racconta

Racconti: Fuochi d’artificio

Racconti: Fuochi d’artificio

Il mio compagno di scuola mi attira in una bella trappola e io? Io ci casco con tutti gli stivali, ovviamente.
Due pomeriggi ad aiutarlo alla bancarella dei fuochi d’artificio in cambio di qualche pezzo da diecimila lire. Due pomeriggi delle vacanze di Natale che – ça va sans dire – già scollinano verso la fine, a gelarci il culo su due sedioline di legno e a schivare i controlli delle solerti forze dell’ordine.

Che poi la bancarella non è manco sua, a dirla tutta: stiamo lì per conto del cognato, un tipetto niente male: il prototipo del lord inglese, che il mio amico chiama affettuosamente “Fogna-man”.

Insomma ce ne stiamo tranquilli tranquilli a fare il rigido dovere dei venditori ambulanti di botti. La merce è la solita: fischie’bum, miccette, mini ciccioli, tric e trac, batterie più o meno spettacolari e razzetti d’ordinanza. Lo spettacolo è però sottobanco: c’è un po’ di tutto, roba vietatissima, ovviamente.
Mancano solo le molotov, a farla breve.

I probiviri dell’ordine, ligi alla loro divisa, passano a farsi la bustina e chiudono un occhio se non tutti e due: di mettere mano al portafogli manco a pensarci.

Insomma – come ho detto – ce ne stiamo lì a fare le solite chiacchiere da adolescenti, quando arriva “Fogna-man” e mi fa coi suoi modi ricercati: “Uaglio’, vieni con me che mi aiuti in magazzino”. E che gli vuoi dire? Quello c’ha dieci anni più di noi e la grinta del pestone.

Arriviamo in questa specie di casamento che Scampia là vicino pare Versailles: un palazzone da edilizia sovietica in pieno centro di Montesilvano. Che dire? Non ci stona per niente. Saliamo per quattro piani – indovinate un po’ l’ascensore? – attraversando pianerottoli che sembrano usciti da un film espressionista tedesco, roba tipo Murnau o Paul Leni.

Entriamo e sorpresa: il magazzino altro non è che l’appartamento di “Fogna-man”. Un salotto scarsamente arredato ospita scatole di fuochi d’artificio – di quelli buoni per far brillare un grattacielo di quelli piccoli – mentre il figlioletto di due o tre anni gattona allegramente in mezzo a tutta quella merda.
Ora comprendo meglio il soprannome.

Già mi figuro una retata e qualcuno che mi ficca la testa dentro la Giulietta della polizia, e invece tempo venti minuti e ce ne torniamo alla bancarella carichi di scatoloni dal contenuto quantomeno dubbio.

Riprendiamo la routine e mentre penso “che s’adda fa’ pe’ campa’” eccolo che arriva: il fulmine salvifico della poesia.

Una coppia – avranno diciassette o diciott’anni – si avvicina facendo segni.
Si tengono per mano e ridono come matti, si guardano come se per lui esistesse solo lei e per lei esistesse solo lui. Ci indicano qualche miccetta o che ne so: qualcosa che faccia luce e un po’ di baccano.

Cacciano fuori cinquemila lire tutte accartocciate e se ne vanno sempre tenendosi per mano, quasi volando sul marciapiede: se non tre metri sopra al cielo qualche centimetro sicuro, hai detto niente.
Continuano a farsi gesti tra loro, quelli della lingua dei segni.

Io li guardo attraversare la strada e sparire oltre il McDonald e penso che due innamorati così non si erano mai visti.
C’è di più: penso che, con quel freddo e in quella luce radente, potrebbero essere la cosa più bella che abbia mai visto.

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