Andrea La Rovere

Ci sono storie bellissime ma sconosciute, fino a quando qualcuno non le racconta

LA PAZIENZA DEL MODELLISTA – 1° A INCHIOSTRO NOIR 2024

LA PAZIENZA DEL MODELLISTA – 1° A INCHIOSTRO NOIR 2024

La Pazienza del Modellista è il racconto con cui ho vinto l’edizione 2024 del concorso Inchiostro Noir. Visto che è passato un anno, lo pubblico in versione integrale qui. Nel 2023 avevo vinto con La Stazione, che trovate al link.

CAPITOLO I

Il diavolo è nei dettagli, lo diceva sempre mia mamma.
Ah, quella donna! Era una miniera di perle di saggezza in formato popolare, aveva sempre in tasca il proverbio giusto per ogni occasione, e chi se ne frega se a volte si contraddicevano tra loro. È il buon vecchio segreto dei modi di dire, un po’ come il famoso orologio rotto – ecco un’altra storiella che quella santa donna raccontava sempre – quello che due volte al giorno segna l’ora esatta. Dai e dai, una volta ci azzecchi: i cartomanti e i preti vanno avanti con questo trucchetto da millenni.
Il diavolo è nei dettagli, cari amici e vicini, ascoltate un cretino.
Io, per dire, non sarei qui a fare la bella vita tra stanze imbottite, pasticche da mandare giù a tutte le ore e discutibili rendez vous con strizzacervelli e compagnia bella.
Avete presente Al Capone? Vi ricorderete come si fece incastrare, quel fesso. Per una storia di tasse! Quello teneva in pugno tutta Chicago, bastava che alzasse un dito e uno squadrone di brutti ceffi, coi mitra, i cappelli e i completi larghi di quella volta, partiva e faceva secca mezza città, e invece.
Io mi sono fatto fregare da una vite.
Una cazzo di vite di quattro millimetri di un cazzo di modellino di un’Alfa GT Zagato del ‘72.

II

Ci sono sere che Mira mi manca in modo insopportabile.
Anche il bambino, per carità, ma con Mira è diverso. La mancanza prende le sembianze di un vero e proprio dolore fisico che parte dalla bocca dello stomaco. Questo lo capirete, Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case eccetera eccetera: mi manca la donna che amavo, che amo. La donna con cui ho diviso sedici anni di vita, con cui avevo creato un linguaggio tutto nostro, solo nostro. La donna con cui passavo le serate facendo sempre le stesse cose e che mi aveva reso padre.
E che non aveva mai scoperto il mio piccolo segreto. Ma ora vi chiedo: quale coppia non ha qualche piccolo segreto? E non è meglio così? Ci sono segreti che fanno funzionare le cose, angoli irraggiungibili dei nervi e delle viscere che tali devono rimanere.
Insomma, le cose sono andate così, e ora che finalmente mi hanno dato una macchina da scrivere le voglio raccontare. Le serate sono lunghe nella mia stanza e scrivere mi è sempre piaciuto; le lettere, in particolare, come scoprirete.

Io, Mira e Lorenzo, il nostro bel bambino di sette anni, vivevamo a Verona. Niente di che, una casetta per conto nostro né piccola e né grande in zona stazione, con un po’ di spazio intorno e un bel garage attrezzato per il mio hobby.
Mira insegnava – per quello che ne so insegna ancora, magari in un altro posto, con tutte le chiacchiere che ci saranno state – e io avevo il mio bel lavoretto in ufficio. Stavamo bene di famiglia tutti e due, non ci mancava niente. Qualche vacanza, Il Tour delle capitali d’Europa, Signore e Signori, o un bel week-end fuori, una libreria ben fornita, Disney e Netflix sul sessanta pollici in sala.
Quella sera me la ricordo bene, quasi parola per parola. O forse me la sono riscritta in testa tante volte che ne ricordo la versione rielaborata, chi lo sa?
Nel pomeriggio eravamo stati da una coppia di amici, Giovanni e Rosaria. Si festeggiavano i due anni del loro marmocchio, un bimbo di una bruttezza rara a cui avevano imposto il nome di Sandro, una specie di bomba batteriologica sempre col moccio al naso che andava raccogliendo batteri e virus con l’idea conviviale di condividerli con chiunque gli si parasse a tiro.
Per l’occasione i due avevano noleggiato una sala coi gonfiabili e le palline colorate e tutte quelle losche trappole attira-marmocchi a cui i genitori guardano come alla Mecca. Vi sarà capitato, amici, di essere intrappolati in una di queste occasioni. Quei postacci sono quasi sempre in periferia, meglio se degradata e circondata da fabbricati fatiscenti e spettrali costruzioni mai portate a termine.

Questo almeno era in centro, ma per il resto rientrava alla perfezione nel canone. Di regola i malcapitati si trascinano per la sala addobbata con malagrazia: all’inizio cercano di tenere d’occhio i propri figli e di imbastire qualche conversazione da bel mondo. Dopo una decina di minuti la bolgia è ormai fuori controllo e rinunciano, sperando se non altro che il sangue del loro sangue si stanchi a tal punto da crollare sfinito una volta a casa.
Si formano capannelli rigidamente divisi per genere. Gli uomini al buffet a rimpinzarsi di carboidrati e a spararle grosse sulle loro nuove auto e moto, le donne ai tavolini a discutere di poppate, cicli del sonno e strampalate teorie messe in giro da rivoluzionari della pediatria, come se i loro bimbetti fossero i primi a gattonare e fare il ruttino dall’inizio dei tempi.

A un certo punto, quando il posto sta per chiudere, un paio di lavoranti col sorriso a tagliola e l’aria da kapò nati nell’epoca sbagliata, fanno partire la solita Buon compleanno a te con lo spazio vuoto al posto del nome e introducono una torta con Stitch o Spiderman o i Paw Patrol. È il segnale: la tortura è finita, andate in pace.
Eravamo tornati verso casa passeggiando per mano come due innamorati freschi, un’usanza che non avevamo mai abbandonato negli anni e che spesso scatenava battute d’invidia più o meno bonaria. La nostra cara, vecchia Verona era la città ideale per passeggiare. Non è certo una metropoli, ma c’è tutto – specie se ti piacciono gli spritz e passare le serate un po’ su di giri, se capite cosa intendo – e passi dallo sfondo dell’anfiteatro o della casa di Giulietta alla strada dove abiti senza neanche il tempo di pensarci.
Avevamo ripreso Lorenzo dai genitori di Mira e ce ne eravamo tornati a casa belli tranquilli, senza manco dover pensare alla cena. Con tutte le pizzette ingurgitate alla festicciola e i nonni che tendevano a viziare il piccolo con merende che erano vere bombe caloriche, i nostri stomaci non avrebbero reclamato per un bel po’.
La serata aveva una scansione ben precisa: guardavamo un po’ di tele sul divano e poi mettevo a dormire il piccolo. Il nostro rito prevedeva un bel lattuccio caldo e le gag di Fuzzy e Telecaster, i due peluche preferiti di Lorenzo a cui il sottoscritto dava le voci. Fuzzy era una talpa con un improbabile ciuffo punk, Telecaster un castoro che imbracciava una chitarra elettrica.

Quanta trasgressione, vero? Sentite questa.
Alla festa del pomeriggio io e Mira avevamo rivisto una coppia di cui non avevamo notizie da un po’, Erik e Manuela. Con lei – ma questo Mira non lo sapeva: beccato! Altro piccolo segreto – ero stato insieme anni prima per qualche mese, una relazione burrascosa a cui ripensavo ancora con terrore. Una donna insoddisfatta che si annoiava di qualsiasi cosa – me compreso – nel giro di un valzer. Lui era la sua ultima conquista, un polacco biondino dallo sguardo da pazzo che aveva raccattato chissà dove e che stava resistendo ben più della media. Erano appena tornati da Amsterdam e ci avevano intontito per un quarto d’ora con il racconto di certi funghetti psichedelici appena provati, roba che ti faceva vedere i draghi. E che forse li faceva dimenticare di se stessi e delle loro terribili personalità tossiche, avevamo commentato ridendo al ritorno.
Beh, ci faceva particolarmente scompisciare la loro trasgressione, senza cui si sarebbero sentiti perduti, confrontata alle nostre perversioni: il lattuccio caldo, le voci dei peluche e il mio garage pieno di modellini.
Sì, perché una volta che Lorenzo si era addormentato, il Vostro si poteva finalmente dedicare per un paio d’ore alla sua passione. Passavo in camera a dare un bacio a Mira, che si metteva a letto alle nove e andava avanti a leggere romanzi fino a mezzanotte, e scendevo nella mia man’s cave.
Una volta erano venuti a trovarci Stella, una cugina di Mira, col fidanzato. Li avevamo portati nel mio sancta sanctorum. Alla vista di quella specie di museo – oltre mille modelli di auto, perfettamente allineati nelle vetrinette, un banco da lavoro che pareva preso da una sala operatoria e gli attrezzi alle pareti in ordine maniacale – Stella se n’era uscita: “Io non lo so che vi succede a voi maschi a una certa età!”
Nel dirlo aveva tirato una gomitata – scherzosa ma fino a un certo punto – al compagno, un ragazzo con la barba nera da arabo e silenzioso come una pietra di torrente. Lui aveva sogghignato, ma non avevo mai saputo quale fosse il suo hobby da ragazzino mai cresciuto: ah, ragazzi, un altro segreto di quelli che impediscono alle cose di andare in malora!

Mira invece era contenta della mia passione e di quanto fossi meticoloso.
A volte, quando a letto indulgevo in una certa pratica che lei gradiva molto – segreto! – mi diceva che la mia era la pazienza del modellista. E di pazienza ce ne voleva, su questo aveva ragione: ma un uomo deve pure avere il proprio hobby, perdio!

III

In tutto il trambusto che seguì alla mia cattura, un gran parlare si fece delle lettere. Tutti a chiedersi il perché, a un certo punto, avessi cominciato a mandare quelle missive – con, come dire, quelle cosine dentro – alla polizia e ai giornalisti. Era quasi come se fosse quella la cosa più strana di tutta la storia, come se non accettassero che un mostro potesse esprimersi con una certa raffinatezza o aver voglia di giocare. E io invece vi dico: continuate sempre a giocare, non lasciate morire il bambino che c’è in voi, anche quando si nasconde così bene.
Gli psichiatri, qui, hanno le loro belle teorie. Soprattutto Michela, quella bionda e appariscente che gioca tanto a fare la poliziotta buona: attenta a non capitarmi a tiro come dico, io, mia bella strizzacervelli! Loro fanno presto: narcisista patologico con tendenza alla figura del covert. In poche parole, uno di quelli che sembrano dei pezzi di pane e poi – sotto sotto – beccati la sorpresa!
Quelli imparano qualche parola a casaccio, ora va per la maggior narcisista, e se ne innamorano. Ve lo dico io, ci godono solo a pronunciarla. Io li lascio fare, tanto con loro è come pisciare controvento, ti ubriacano di paroloni e modi gentili e ti torna sempre tutto in faccia.
La verità è che mi piaceva.
Mandare lettere mi piaceva da matti, era la ciliegina sulla torta. E, se state pensando che avessi paura che mi scoprissero o se – cliché dei cliché – desideravo che lo facessero, beh, toglietevi quel sorrisetto da sotto ai baffi. Avete mai visto un uomo alla guida fare qualche cazzata pensando di avere il controllo totale? Ecco, noi uomini siamo fatti così: siamo sempre sicuri che nulla possa sfuggire al nostro controllo.
Mi sbagliavo?
Mi sbagliavo: voi non avete mai fatto errori?

IV

Quella sera scesi le scale che dalla cucina portavano alla rimessa con la solita eccitazione che mi prendeva in quei giorni particolari. Bastava che aprissi la porta, già in preda a quell’impazienza che cercavo in ogni modo di dissimulare – ero ormai un consumato attore, signori della giuria – e sentivo il sangue pulsare alle tempie e il cuore pestare contro il petto come un tamburo. Ero convinto che si sarebbe potuto sentire il rumore da fuori, a farci attenzione. Arrivato alla porticina del garage mi dovetti appoggiare alla maniglia per riprendere un po’ il controllo e cercare di rallentare i battiti. Mi sorpresi a pensare che se mi fosse venuto un infarto in quel momento avrebbero potuto scoprire il mio piccolo segreto, un po’ come il vecchio imprenditore che schiatta mentre si fa fare un pompino nella Mercedes da una trans, o come il parroco che crepa di un bel colpo con le braghe calate e il pc collegato a Porn Hub.
Oppure no, non l’avrebbero scoperto nemmeno con la dipartita del Vostro amico e narratore – ero stato così previdente, in fondo – e via coi discorsi su quant’era bello e quant’era bravo e tutte quelle chiacchiere.
Aprii la porta, richiudendomela alle spalle. Pigiai l’interruttore e i tubi al neon si accesero ronzando e inondando la stanza con la loro luce fredda. Le teche coi modellini, quelli su cui esercitavo la mia pazienza da modellista, rilucevano coi loro piccoli capolavori. Sul banco mi attendeva l’Alfa GT Zagato su cui stavo lavorando.
Per quella sera avrebbe dovuto aspettare: quelli erano i giorni in cui mi dedicavo all’altra mia passione, quella segreta. Li chiamavo tra me i giorni della Grande Sete.
Aprii la vetrinetta con le macchine degli anni Venti. Nel bagagliaio di una Rolls Royce in scala uno a diciotto c’era un sensore che si attivava con la mia impronta digitale.
Era proprio vero, con un po’ di ingegno, di manualità e pazienza da modellista, nell’era di internet potevi costruirti da solo qualsiasi cosa. Bastava il tutorial giusto ed era fatta, ti potevi fare una piccola bomba atomica in cantina. Al sottoscritto non difettava nessuna di queste doti ed ero molto orgoglioso di quello che avevo creato, tra un modellino e l’altro.
Pigiai il dito nel lettore e subito la vetrinetta vicina si spostò sui binari che io stesso avevo costruito, facendo apparire – miracolo! – la porta.
Il mio passaggio segreto.
All’interno c’era un altro sensore, bastava che ci passassi davanti l’impronta del dito indice et voilà, la porta si richiudeva e la vetrinetta tornava al suo posto. E se mia moglie fosse scesa per un qualsiasi motivo in garage, direte voi? Niente paura, al di là dell’improbabilità dell’evento, – mai successo in più di dieci anni – avevo installato una fotocellula sulla porta della cucina. Lei l’avrebbe attraversata e una lucetta rossa avrebbe preso a lampeggiare, con un lieve cicaleccio, nella mia stanza segreta.
Mira mi avrebbe trovato tutto preso a lucidare i minuscoli cerchi di una Giulia Super o a montare il motorino a otto cilindri di una Lotus del sessantotto.

V

Lei era lì ad aspettarmi.
E dove avrebbe dovuto essere, di grazia, legata con catene d’acciaio?
Era la fase più eccitante di quelle mie piccole avventure segrete, il quinto giorno. La ragazza la conoscevo di vista da anni, una commessa del supermercato dove a volte mi fermavo uscendo dal lavoro. Una giovane piuttosto insignificante, come se ne vedono a decine in città. L’avevo prelevata col solito trucco, una di quelle trovate che funzionano dai tempi di Ted Bundy e che potete trovare in qualsiasi romanzetto thriller di terza scelta. Per quattro giorni l’avevo… beh, inutile che mi dilunghi in particolari: tutti avrete letto i resoconti di giornali e riviste, gli speciali alla televisione e le rubriche di true crime su You Tube e saprete benissimo cosa facevo a quelle figliuole.
Il Vampiro di Verona.
Niente da fare, le definizioni morbose dei giornalisti mi hanno sempre fatto impazzire, giuro. Basta che uno voglia bere il sangue di una fanciulla e subito viene rubricato alla parola vampiro. Un pazzo, ecco cos’ero per loro, ma che ne sapevano?
Non sapevano come mi sentivo dopo. L’effetto durava a lungo, all’inizio, me ne bastava una ogni due anni. Poi, fatalmente, il ritmo era aumentato e avevo bisogno di quella – come chiamarla? – cura ricostituente più spesso. Già che c’ero, però, per qualche giorno mi dilettavo in tutti i modi che la fantasia mi suggeriva. E di fantasia ne avevo.
Lei subito urlò, anche se temo che le forze stessero ormai per abbandonarla, dato il flebile suono che le uscì dalla bocca. Poco male, le pareti erano insonorizzate meglio di quelle degli studi di registrazione di Abbey Road, avrei potuto tenere prigioniero Placido Domingo e nessuno se ne sarebbe accorto.
“Liberami… Non lo dirò a nessuno, te lo giuro…” disse la sventurata.
Ricordo che fui divertito a quelle parole. Voglio dire, tra piattaforme, libri e cronaca ormai anche la più sprovveduta commessa di un supermercato doveva avere un’idea di come queste faccende finissero. Chi glielo faceva fare di sprecare il fiato così? Mi fece così tenerezza che per un attimo – una frazione di secondo, nulla più: non sono mica pazzo! – sentii salirmi agli occhi un accenno di commozione e la tentazione di liberarla, aprirle la saracinesca del garage e guardarla sparire zoppicando ingobbita nella bianca luce lunare che luccicava come un osso. Così, giusto per vedere l’effetto che faceva.
Era tutto perfetto, le avrei fatto la solita iniezione e avrei passato le due ore successive a farla a pezzi con la mia attrezzatura, conservando giusto un paio di souvenir. Uno per la mia collezione personale, la vetrinetta più squisita della mia raccolta, l’altro per quei curiosoni della polizia. Ma sì, un dito smaltato e una bella lettera e il mito del Vampiro di Verona sarebbe volato ancora più alto in hit parade.

E invece, in quel momento le ruote degli ingranaggi che muovono il sole e l’altre stelle si erano già messi in moto con lo scopo di fottere il Vostro.

VI

Due cose avevo sempre ammirato in Mira: il problem solving e la capacità d’azione in tempi brevi. E l’ammiro ancora, credetemi, anche se proprio queste due caratteristiche mi hanno perduto.
La pazienza del modellista, quella definizione che mi era tanto piaciuta alludeva alla mia maniacale meticolosità. Eppure, devo ammetterlo, mi ero addormentato sugli allori. I primi tempi controllavo la fotocellula ogni sera, amici. Poi sapete come succede, e avevo iniziato a trascurare qualche piccola precauzione. Durante l’inchiesta venne fuori che l’aggeggio aveva smesso di funzionare da un paio di settimane buone. Avrete avuto anche voi qualche amico o parente che si è buscato un colpo, magari un piccolo infarto o una minuscola ischemia. Beh, avrete fatto caso a come i primi tempi diventino più salutisti di un vegano alle Olimpiadi: alimentazione controllata, l’ultimo pacchetto di Merit squarciato, sbriciolato e buttato nello scarico del cesso, qualsiasi stress tenuto lontano come Lord Elsinore farebbe con un centro sociale.
Poi, passato qualche mese senza segnali d’allarme, riprendono le vecchie abitudini, una a una. Prima una sigaretta dopo la cena con gli amici, che male può fare? Poi quell’arrosto succulento, le incazzature davanti al derby con la birra in mano e in breve ecco la Nera Signora ripresentarsi per la Conta Finale.
Il diavolo è nei dettagli.
E, a volte, i dettagli non vengono da soli, quasi che si mettessero d’accordo per fartela pagare tutta in una volta. Non solo la fotocellula era andata: una vite dell’impianto di scarico della mia bella Alfa GT Zagato del ‘72 era caduta a terra e dove si era andata a ficcare? Nell’unico posto dove poteva fare danno, in un interstizio dei binari del mio bel marchingegno. Risultato, quando mi ero tirato la porta della mia stanzetta segreta alle spalle, la vetrinetta era rimasta al suo posto, senza tornare a coprire l’uscio.
Mi sarebbe andata ancora bene, se Mira non avesse ricevuto un’email mentre leggeva il suo bel romanzo della sera. Mi sono chiesto almeno un milione di volte, da quando sono qui contenuto nell’istituto, quale casa editrice seria possa mai scrivere alle dieci di sera. Fatto sta che la Edizioni Stocazzo o come si chiamava, aveva pensato bene di avvisare Mira che il suo romanzo – una storia di serial killer – sarebbe stata pubblicata.
Ottimo! Benissimo!
Ma non potevano aspettare un’ora decente?
Mira era scesa – per la prima volta in tanti anni – in garage per condividere la buona novella. La fotocellula si era guardata bene dall’avvisarmi e lei aveva trovato la porta, quella porta scintillante di cui mai aveva sospettato l’esistenza, e si era insospettita. Mi aveva chiamato, ma ricorderete il mio orgoglio per le pareti insonorizzate e tutto il resto. Aveva ruotato – piano piano – la maniglia, dopo essersi dotata per ogni evenienza della chiave a croce che serviva a fare il cambio gomme invernale e che stava lì, al suo posto come ogni altra cosa. Tranne la vite, ovviamente.

La porta si era aperta senza un rumore e Mira aveva sorpreso il suo bel maritino, quell’uomo perfetto e invidiato dalle amiche, che si apprestava a fare una bella iniezione letale alla commessa di periferia, manco fosse il boia di una di quelle belle esecuzioni alla texana.
Problem solving e capacità d’azione: Mira non si era fatta grossi problemi e, anche se la realtà era con ogni probabilità molto peggio di quella che aveva potuto immaginare in una frazione di secondo, mi aveva colpito con tutta la forza alla testa.
Non ne aveva tanta di forza, Mira, ma una chiave a croce d’acciaio è pesante e la testa del Vostro sincero amico è dura ma fino a un certo punto.
Rimasi svenuto forse per un paio d’ore.
Centoventi minuti che salvarono la vita della cara commessa, mandarono in frantumi la mia e – credo – quella di mia moglie e mio figlio e misero in moto tutta la tarantella mediatica del caso.

VII

Questa è la mia storia.
Una storia senza lieto fine, almeno per me.
Non si sta nemmeno così male, qui, ora che ho pure da scrivere; anche se di quelle lettere che piacciono a me, col souvenir e tutto il resto, non se ne parla. A volte la mia famiglia mi manca, altre a mancarmi è la sensazione rilassante dei miei modellini, di assemblare i pezzi uno dopo l’altro, secondo un disegno che mi pare l’unico che abbia senso.
A volte, invece, mi manca il sangue.
Semplicemente.

Ma non temete, c’è sempre una via d’uscita. La mia macchina da scrivere è una vecchia Olympia, di quelle che producevano negli anni Sessanta in Germania Ovest. Un vero pezzo vintage, chissà come diavolo ci è arrivata qui all’istituto? Per uno come me, con la mia manualità e il mio ingegno, si tratta di un oggetto fantastico. Per scrivere, certo, ma anche per essere smontato. Avete idea di quante parti in metallo ci siano in una vecchia macchina da scrivere e di quanto alcune possano diventare taglienti se lavorate a dovere?
Certo, ci vuole tanto tempo, ma di quello qui dentro ce n’è in abbondanza.
E ci vuole qualcos’altro, amici e vicini che leggete queste righe.
Ci vuole pazienza, la pazienza del modellista.

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